A sinistra via della Tesa, al centro il muretto di via Molino a vento. Foto collezione Antonio Paladini |
Il muretto di via Molino a Vento, che sostiene il terrapieno e funge da parapetto verso la strada che un tempo si chiamava via della Tesa e oggi è denominata viale G.D'Annunzio e più avanti Largo Sidney Sonnino, era una pittoresca sartoria-bazar, un campionario di mode passate, robe smesse, scarpe consunte, cappelli, colli e cravatte. Le donne, ai piè del muretto rammendavano, toglievano macchie, lucidavano le scarpe, spazzolavano, cercavano di valorizzare la mercanzia. Si trovavano abiti da lavoro e da passeggio, da marinaio, da ciclista, da amazzone, marsine e molto altro. La piana del muretto diventava una "scanzia", dove venivano esposti cappelli di ogni tipo ed ai piedi del muretto una parata di scarpe e stivaletti.
Dalmati, montenegrini e bosniaci, chiamati dai triestini "Jaka Bibi", arrivavano in città con i loro costumi nazionali, che venivano lasciati al "bazar" di via Molino a vento dove acquistavano degli abiti che gli avrebbero permesso di fondersi con il resto dei cittadini. Le venditrici erano anche abili sarte, sempre assistite da "Siora Maria delle strazze", direttrice energica e sbrigativa, che con la sua esperienza dava suggerimenti alle sue lavoranti mentre queste aiutavano gli acquirenti a scegliere gli abiti delle misure giuste. Le prove erano fatte all'aperto, sulla strada, per cui veniva adottata la tesi secondo la quale l'ampiezza delle braccia corrispondesse alla lunghezza delle gambe così, dopo aver fatto allargare le braccia, venivano divaricati i pantaloni e controllavano se le misure corrispondevano. All'occasione venivano accorciati, mentre per allungarli veniva scucita la balza o si utilizzavano stoffe affini. Le calze venivano misurate avvolgendole attorno al pugno, se punta e tallone si toccavano, la misura era quella giusta. Questo sistema di misurazioni è continuato, in vari negozi, per molti anni è mi ha coinvolto personalmente quantomeno sino agli anni '60.
Via Molino a Vento con "el mercato delle strazze" e la vivace attività dei rigattieri. Foto collezione Antonio Paladini |
Jaka Bibi
I triestini, che non conoscevano il significato di questo termine, chiamavano con questo nome tutti coloro che arrivavano in città indossando un costume nazionale, o anche solo qualche parte di esso, come turchi, greci, albanesi ..., ma, in modo scherzoso, lo stesso termine veniva usato anche verso gli stessi cittadini che vestivano in modo stravagante.
Probabilmente il nome è stato importato dai marittimi, che lo avevano sentito ripetere dagli arabi che tentavano di vendere loro la mercanzia, e il significato sarebbe "caro mio".
Misurazione dei pantaloni per un "Jaka Bibi" Disegno di Adolfo Leghissa, tratto da "Trieste che Passa" |
Fonti:
"Trieste che passa" Adolfo Leghissa
"Din, din. Chi xe?" Livio Grassi
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