L'osteria era sede d'incontro e d'evasione, in particolare per operai, braccianti e marittimi, luogo in cui si poteva ovviamente bere qualche bicchiere, intonare canzonette, giocare a carte e alla morra (gioco molto antico, colpito spesso da divieti, perché dava origine a violente risse), ma anche dove parlare di lavoro, di rivendicazioni sindacali e politica, tanto che alcuni locali divennero noti, perché furono ritrovo di artisti, intellettuali, spiriti patriottici e irredentisti.
Nell'800 a Trieste le locande, osterie, caffè, bettole, liquorerie, birrerie o pubblici esercizi di vario ordine, erano concentrati soprattutto in città vecchia e solo lungo la via di Riborgo, a fine '800, fra caffè, osterie e liquorerie i locali attivi erano ben otto, con nomi che variavano a seconda del periodo, delle mode, ma che venivano pure spesso ribattezzate dai triestini secondo il loro gusto.
Questa via dalle nobili origini, un tempo contrada principale della città medioevale, era abitata dai cittadini appartenenti ai ceti più abbienti e nonostante la modesta ampiezza, che variava dai tre ai quattro metri, godeva di un rilevante movimento di merci e persone. Il suo tracciato corrispondeva più o meno all'attuale via del Teatro Romano e si estendeva dalla porta cittadina di Riborgo fino all'incrocio con la contrada Malcanton.
Una lapide posta sopra l'ingresso dello stabile attiguo alla chiesa del Rosario, al civico N° 8 (PT 51) di contrada Riborgo, ricordava che il 25 maggio 1625 qui vi aveva avuto i natali lo storiografo Giovanni Maria Manarutta, dal 1649 Fra Ireneo della Croce, il primo che abbia scritto la storia di Trieste dalle sue origini. La lapide, dettata dallo storico Pietro Kandler, era stata collocata nel 1853 dal proprietario dell'edificio e cultore delle memorie della città, Lodovico Kert, in occasione di un restauro.
Negli ultimi anni dell'800 nell'edificio si trovavano ben tre osterie, che evidentemente non temevano la concorrenza, una delle quali era l'osteria del fumo.
Osteria del Fumo
Il locale che, all'inizio del '900 era gestito da Giovanni Celich, era noto come osteria "del fumo" dal momento che essendo privo di finestre ben presto si saturava con il fumo delle sigarette, sigari e pipe degli avventori.
Per non togliere nulla alla gustosa ed efficace descrizione, riporto alcuni passi scritti dall'acuto e ironico osservatore A. Leghissa [1]: "...nel fondo del corridoio, una stretta porticina metteva in un metro quadrato di corticella, anche questa soffocata dall'alto muro dell'abside della vecchia chiesa del Rosario. L'osteria il cui proprietario era un un dalmata ex marinaio, aveva cambiato più volte di nome e di padrone, sempre dalmata, assumendo il titolo secondo la cittadinanza del nuovo gestore: Lesina, Curzola, Brazza, Spalato, Sebenico, Traù...", il nome ufficiale comunque non aveva importanza in quanto la gente del rione l'aveva ormai battezzata osteria del fumo.
Dal momento che, come detto, era priva di finestre, la luce veniva data da due lampade a gas che ardevano in permanenza e l'accesso all'esercizio era così stretto da permettere il passaggio di una sola persona per volta: "A destra vicino l'entrata, v'era la catasta delle botti, davanti a queste il banco di mescita che prendeva metà dell'ingresso...". "Dietro al banco stava seduto l'oste il quale riceveva le ordinazioni dai clienti senza mai però levarsi di là per servire al tavolo se gli intervenuti non raggiungevano almeno il numero di quattro. Fino a tre dovevano recarsi al banco e ritirare di propria mano il richiesto, pagando per cassa.", uno strano sistema che pare venisse accettato da tutti.
"I tavoli, fiancheggiati da solide panche, erano collocati lungo le pareti così che il mezzo formava una specie di corsia simile a quella dei carrozzoni ferroviari di terza classe.".
Sulla parete ingiallita era appesa una tabella con un gallo che recava la scritta: "Quando questo gallo canterà credenza si farà.", verso sera il fumo diventava così denso da avvolgere ogni cosa e formare delle nuvole che aleggiavano nell'aria opaca, si appannava il vetro dell'immagine di San Simone collocata su una mensola, poi si svolgevano i riti comuni a tutte le osterie: si giocava, si stringevano patti di amicizia fraterna, si levavano i cori e si prendevano solenni sbornie.
Frequentata da braccianti, marittimi, carbonai di bordo, l'oste li conosceva tutti e si era creato un clima familiare, verso la mezzanotte, ora di chiusura, con l'aiuto di un amico l'oste faceva uscire gli avventori, quelli che non erano più in grado di reggersi sulle gambe, d'estate li collocava sul marciapiedi a lato della chiesa del Rosario in attesa che la brezza mattutina li risvegliasse, mentre in inverno avvisava le famiglie affinché li venissero a recuperare, per quanto, per i parenti dei forti bevitori la sera era uso fare la ronda alla ricerca dei congiunti, pare infine che per gli avventori più sbronzi, ottenebrati dal forte "Dalmato nero" o dal famoso "Opollo di Lissa", lo scrupolo dell'oste arrivasse al punto di scrivere sulla giacca dei clienti il nome e l'indirizzo di casa con il gesso, proprio come veniva fatto per le mercanzie a bordo dei piroscafi.
L'osteria rimase in attività fino a che il fabbricato venne abbattuto, come contemplato dal Piano Regolatore reso esecutivo dal podestà Salem nell'estate del 1934, che prevedeva la demolizione di gran parte degli edifici della zona, per il risanamento di Città Vecchia e la realizzazione del "Corso Littorio", denominazione apposta nel 1939, che nel 1943 mutò in "Corso del Teatro Romano" e nel 1946 infine in "Via del Teatro Romano".
I problemi dell'alcol
Come già detto, a Trieste le osterie erano in gran numero e sempre molto frequentate, nella "Guida della Città" del 1900 sono registrate ben 527 osterie, 165 trattorie e 132 liquorerie, delle quali rispettivamente 65, 20 e 13 si trovavano in città vecchia.
Nella cultura popolare al vino venivano attribuite facoltà farmacologiche e una buona bevuta era ritenuta salutare, ma spesso la bevanda di Bacco aiutava soprattutto a dimenticare le sofferenze, le difficoltà economiche, l'insicurezza del domani, gli alloggi sovraffollati e inospitali, un'abitudine nociva che facilmente si trasformava in dipendenza, le conseguenze della quale coinvolgevano tutta la famiglia del bevitore.
L'uso smodato di alcool era più frequente in coloro che esercitavano mestieri che li obbligavano a lunghe e frequenti attese, spesso trascorse nella bettola più vicina, come facchini, servi di piazza, vetturini, cocchieri... Questi erano pure impieghi che si svolgevano principalmente all'aperto e nei mesi invernali per combattere il freddo si iniziava sin dal mattino con un acquavite che "scalda le rece", seguita da altri bicchieri per contrastare la fatica, l'umido, in estate il caldo afoso, la noia e a volte la frustrazione.
Per aprire una parentesi più allegra voglio ricordare che da questi ricoveri ebbe origine la canzone popolare "l'Ino [o Inno] dei mati", dove viene fatto riferimento al primario, che a quel tempo era proprio il succitato dott. Luigi Canestrini, un luminare della psichiatria molto noto e popolare a Trieste, anche per la sua umanità, e menzionato pure da Italo Svevo nella Coscienza di Zeno, in occasione di una meticolosa visita sostenuta per ottenere uno scherzoso certificato di sanità mentale da presentare al padre.
A distanza di anni per gli alcolisti non era cambiato molto, a conferma propongo un trafiletto apparso su un quotidiano della nostra città del 29 marzo 1928:
"Trieste è uno dei centri urbani in cui si beve di più anche se il vino è più caro rispetto ad altre città. Dalla questura sono stati censiti 119 alcolisti ... la piaga sociale richiede l'intervento non solo delle congregazioni di carità, ma anche della sanità in quanto la dipendenza da alcolici è ritenuta una malattia vera e propria".
Da ricordare che il primo club degli alcolisti in trattamento fu fondato a Trieste 1979, molta strada era stata fatta e molta era ancora da fare.
NOTE
[1] Adolfo Leghissa, 10 novembre 1875 - 18 ottobre 1957.
[2] Luigi Canestrini, primario dell'ottava divisione del Civico Ospedale, fu il primo direttore del Frenocomio inaugurato nel 1908, rimase in carica fino al 1926, anno della sua morte. Nacque a Rovereto nel 1854, si laureò a Graz e si specializzò in neuropsichiatria a Berlino.
Bibliografia
Trieste che passa (1884-1914) di Adolfo Leghissa.
Carte da legare - Archivi della psichiatria in Italia - Ospedale psichiatrico provinciale di Trieste.
Testo dell'Inno dei mati tratto da fabotrieste.blogspot.com
"Cenni storici sulla prassi psichiatrica triestina dal 1908 al 1970" di Donatella Barbina.
Sulla parete ingiallita era appesa una tabella con un gallo che recava la scritta: "Quando questo gallo canterà credenza si farà.", verso sera il fumo diventava così denso da avvolgere ogni cosa e formare delle nuvole che aleggiavano nell'aria opaca, si appannava il vetro dell'immagine di San Simone collocata su una mensola, poi si svolgevano i riti comuni a tutte le osterie: si giocava, si stringevano patti di amicizia fraterna, si levavano i cori e si prendevano solenni sbornie.
Frequentata da braccianti, marittimi, carbonai di bordo, l'oste li conosceva tutti e si era creato un clima familiare, verso la mezzanotte, ora di chiusura, con l'aiuto di un amico l'oste faceva uscire gli avventori, quelli che non erano più in grado di reggersi sulle gambe, d'estate li collocava sul marciapiedi a lato della chiesa del Rosario in attesa che la brezza mattutina li risvegliasse, mentre in inverno avvisava le famiglie affinché li venissero a recuperare, per quanto, per i parenti dei forti bevitori la sera era uso fare la ronda alla ricerca dei congiunti, pare infine che per gli avventori più sbronzi, ottenebrati dal forte "Dalmato nero" o dal famoso "Opollo di Lissa", lo scrupolo dell'oste arrivasse al punto di scrivere sulla giacca dei clienti il nome e l'indirizzo di casa con il gesso, proprio come veniva fatto per le mercanzie a bordo dei piroscafi.
L'osteria rimase in attività fino a che il fabbricato venne abbattuto, come contemplato dal Piano Regolatore reso esecutivo dal podestà Salem nell'estate del 1934, che prevedeva la demolizione di gran parte degli edifici della zona, per il risanamento di Città Vecchia e la realizzazione del "Corso Littorio", denominazione apposta nel 1939, che nel 1943 mutò in "Corso del Teatro Romano" e nel 1946 infine in "Via del Teatro Romano".
Parte dell'abside della chiesa del Rosario dopo la demolizione dell'adiacente casa natale di Ireneo della Croce. Foto Antonio Ciana 26 dicembre 1936. |
I problemi dell'alcol
Come già detto, a Trieste le osterie erano in gran numero e sempre molto frequentate, nella "Guida della Città" del 1900 sono registrate ben 527 osterie, 165 trattorie e 132 liquorerie, delle quali rispettivamente 65, 20 e 13 si trovavano in città vecchia.
Nella cultura popolare al vino venivano attribuite facoltà farmacologiche e una buona bevuta era ritenuta salutare, ma spesso la bevanda di Bacco aiutava soprattutto a dimenticare le sofferenze, le difficoltà economiche, l'insicurezza del domani, gli alloggi sovraffollati e inospitali, un'abitudine nociva che facilmente si trasformava in dipendenza, le conseguenze della quale coinvolgevano tutta la famiglia del bevitore.
L'uso smodato di alcool era più frequente in coloro che esercitavano mestieri che li obbligavano a lunghe e frequenti attese, spesso trascorse nella bettola più vicina, come facchini, servi di piazza, vetturini, cocchieri... Questi erano pure impieghi che si svolgevano principalmente all'aperto e nei mesi invernali per combattere il freddo si iniziava sin dal mattino con un acquavite che "scalda le rece", seguita da altri bicchieri per contrastare la fatica, l'umido, in estate il caldo afoso, la noia e a volte la frustrazione.
A tarda notte erano ancora più evidenti gli effetti degli eccessi del bere con risse, schiamazzi, persone che ciondolavano lungo le strade, spesso cadendo vittima dei borseggiatori, o che in genere offrivano scene penose o volgari, questo nonostante la vigilanza delle guardie che facevano la ronda nelle ore più tarde.
Benché da sempre fossero noti alcuni disturbi legati all'abuso di vino e liquori, all'inizio del '900 il problema divenne un'emergenza e per arginare il fenomeno si formarono leghe e associazioni analcoliste che si occuparono di promuovere campagne per contrastare l'abuso dell'alcol e informare sui danni da questo provocati. Il Comune pensò anche di limitare il numero di licenze per i locali adibiti a vendita di alcolici, ma per i troppi interessi in ballo il progetto non venne mai attuato.
La medicina era lontana dal considerare e curare la dipendenza fisica e psicologica dall'alcol e di conseguenza anche i trattamenti erano inadeguati. Gli alcolizzati, ma anche i reduci di potenti sbronze che dessero qualche segno di squilibrio, venivano internati, solitamente per qualche giorno, nella "famosa" VIII divisione psichiatrica del Civico Ospedale, attuale Ospedale Maggiore (che venne formata nel 1884 dal settore B della III divisione medica), diretta dal dottor Luigi Canestrini [2], dove venivano ricoverati i malati mentali affetti da forme non acute; il reparto rimase attivo anche dopo l'apertura del Civico Frenocomio di San Giovanni, inaugurato il 4 novembre 1908 e mantenne le funzioni di primo accoglimento fino alla chiusura avvenuta nel 1924.
Benché da sempre fossero noti alcuni disturbi legati all'abuso di vino e liquori, all'inizio del '900 il problema divenne un'emergenza e per arginare il fenomeno si formarono leghe e associazioni analcoliste che si occuparono di promuovere campagne per contrastare l'abuso dell'alcol e informare sui danni da questo provocati. Il Comune pensò anche di limitare il numero di licenze per i locali adibiti a vendita di alcolici, ma per i troppi interessi in ballo il progetto non venne mai attuato.
La medicina era lontana dal considerare e curare la dipendenza fisica e psicologica dall'alcol e di conseguenza anche i trattamenti erano inadeguati. Gli alcolizzati, ma anche i reduci di potenti sbronze che dessero qualche segno di squilibrio, venivano internati, solitamente per qualche giorno, nella "famosa" VIII divisione psichiatrica del Civico Ospedale, attuale Ospedale Maggiore (che venne formata nel 1884 dal settore B della III divisione medica), diretta dal dottor Luigi Canestrini [2], dove venivano ricoverati i malati mentali affetti da forme non acute; il reparto rimase attivo anche dopo l'apertura del Civico Frenocomio di San Giovanni, inaugurato il 4 novembre 1908 e mantenne le funzioni di primo accoglimento fino alla chiusura avvenuta nel 1924.
Per aprire una parentesi più allegra voglio ricordare che da questi ricoveri ebbe origine la canzone popolare "l'Ino [o Inno] dei mati", dove viene fatto riferimento al primario, che a quel tempo era proprio il succitato dott. Luigi Canestrini, un luminare della psichiatria molto noto e popolare a Trieste, anche per la sua umanità, e menzionato pure da Italo Svevo nella Coscienza di Zeno, in occasione di una meticolosa visita sostenuta per ottenere uno scherzoso certificato di sanità mentale da presentare al padre.
"E co capita el primario
el domanda come xe,
come xe.
Sior primario, stemo meio:
siam rimasti solo in tre!
Solo in tre!
E in zavate, capel de pàia,
la vestaglia a pindolòn,
finiremo 'sta marmaia
ne l'Otava Divisiòn!
Secession!
Sior primario, la saludo
perché 'l mal me xe passà,
xe passà,
ma se ciapo un'altra bala
la me vedi tornàr qua!
Tornàr qua
[Ritornello]"
In alcune versioni della canzone al termine "secession!" viene sostituito "sul pajon!", personalmente credo che il primo termine, che significa distacco-separazione, sia quello originale, in quanto il gruppo "de l'Otava Division" si sente distaccato dalla compagine sociale.A distanza di anni per gli alcolisti non era cambiato molto, a conferma propongo un trafiletto apparso su un quotidiano della nostra città del 29 marzo 1928:
"Trieste è uno dei centri urbani in cui si beve di più anche se il vino è più caro rispetto ad altre città. Dalla questura sono stati censiti 119 alcolisti ... la piaga sociale richiede l'intervento non solo delle congregazioni di carità, ma anche della sanità in quanto la dipendenza da alcolici è ritenuta una malattia vera e propria".
Da ricordare che il primo club degli alcolisti in trattamento fu fondato a Trieste 1979, molta strada era stata fatta e molta era ancora da fare.
NOTE
[1] Adolfo Leghissa, 10 novembre 1875 - 18 ottobre 1957.
[2] Luigi Canestrini, primario dell'ottava divisione del Civico Ospedale, fu il primo direttore del Frenocomio inaugurato nel 1908, rimase in carica fino al 1926, anno della sua morte. Nacque a Rovereto nel 1854, si laureò a Graz e si specializzò in neuropsichiatria a Berlino.
Bibliografia
Trieste che passa (1884-1914) di Adolfo Leghissa.
Carte da legare - Archivi della psichiatria in Italia - Ospedale psichiatrico provinciale di Trieste.
Testo dell'Inno dei mati tratto da fabotrieste.blogspot.com
"Cenni storici sulla prassi psichiatrica triestina dal 1908 al 1970" di Donatella Barbina.
Trieste 1900-1999 Cent'anni di storia vol. III