mercoledì 30 settembre 2015

"El Corso delle Viole"


Dal 1860 il mercoledì delle ceneri, primo giorno di quaresima, dopo aver partecipato al rito della pubblica penitenza, dove il sacerdote con i paramenti viola spargeva sul capo dei fedeli le ceneri ottenute bruciando i rami d’ulivo benedetti la domenica delle Palme dell’anno precedente e gli altari e i banchi venivano ornati con le viole scure che diffondevano il loro profumo in tutta la chiesa, si apriva una momento di laica mondanità. 
Lungo il passeggio di Sant'Andrea si svolgeva una sfilata aristocratica post-carnevalesca, senza maschere e senza schiamazzi, che veniva detto "El corso delle viole" per la grande profusione di questi fiori dal colore simbolico, nelle acconciature delle dame, nelle decorazioni delle vetture e in ogni dove.
Consisteva in una cavalcata di signori in tuba e di eleganti amazzoni, seguiti da carrozze equipaggiate con gran lusso e tirate da superbi cavalli di razza, nelle quali sedeva il fior fiore della città. Le vetture erano tutte scoperte, perché era pure un'occasione di sfoggio di belle toilette, di ampi mantelli, ricchi scialli e cappelli piumati. Le carrozze più ampie erano i landau che potevano ospitare quattro persone nei due sedili vis à vis, perchè questa era anche una competizione fra chi possedeva il veicolo più elegante e la tappezzeria più lussuosa. La sfilata dava un ultimo saluto al carnevale  procedendo, accompagnata dalla musica di una banda, fra due ali di pubblico stupito e curioso.  

Nei primi anni del secolo, quando tutta Sant'Andrea fu trasformata in un cantiere per la costruzione del nuovo porto e della nuova stazione ferroviaria, il corso si spostò alla più accogliente riviera di Barcola, dove fiorì ancora per tre o quattro anni, poi via via andò scemando l'interesse per questa manifestazione.


Passeggio Sant'Andrea, qui ancora denominato Strada di Sant'Andrea per Servola con evidenziato quello che era definito il "giro delle carrozze", si trattava di uno splendido viale alberato, molto ampio, con a destra la vista del mare.


Un'elegante carrozza trainata da due splendidi cavalli bianchi sfila lungo la riviera barcolana

Il mercoledì delle ceneri aveva le sue celebrazioni anche a Servola e San Giovanni, dove veniva bruciato un fantoccio che rappresentava il carnevale ormai finito. La giornata rappresentava però un'ulteriore occasione di festa per la gente di Trieste stradaiola, con la passione per il chiasso e l'allegria, difatti in queste località le osterie rimanevano aperte tutta la notte per sostenere con un buon bicchiere i gaudenti partecipanti.

Con la fine del secolo l'interesse per il carnevale andò declinando, fino a cessare nel periodo del primo conflitto mondiale.


I triestini si dispongono lungo la riviera di Barcola a guardare le carrozze che sfilano guidate da distinti cocchieri.
Cerimonia di premiazione del Corso delle Viole del 1906. Il palco d'onore è posto nell'aiuola di fronte a Villa Jakic. Si vedono calessini, "brum" con cavalli singoli o pariglie, a sinistra un autocarro addobbato con i fiori. In primo piano la giuria sta osservando un calessino con pariglia e palafreniere.







Fonti:
"Vecchia Trieste" granellini di sabbia Lorenzo Lorenzutti
"Trieste che passa" Adolfo Leghissa
"Trieste-Spunti dal suo passato" Silvio Rutteri
"San Vito" Alfieri Seri - Sergio Degli Ivanissevich

martedì 29 settembre 2015

Hotel Bristol

Nel 1912 l'architetto Enrico Nordio realizzò questo palazzo di cinque piani in stile neogotico veneziano, da utilizzare come albergo, in via Ponterosso 4 (oggi via Roma) angolo via San Nicolò. I proprietari erano Ugo Zauli e Giovanni Sautter, che avevano già in gestione l'Hotel de la Ville.


Sulla facciata di via Roma si può vedere il bassorilievo del leone di San Marco,
opera di Gianni Marin


Lapide con l'iscrizione dettata da Attilio Hortis, presente nella casa precedente, distrutta dagli austriaci nel 1916. Venne posta nel nuovo edificio il 25 marzo 1934 dalla comunità greca di Trieste. La piccola targa sottostante riporta un verso dantesco del Paradiso che parla della famiglia degli Ughi.

Sulla facciata di via San Nicolò c'è una targa in ricordo di Pasquale Besenghi degli Ughi, morto di colera nel 1849 nell'edificio precedente, sede di un altro albergo, che nel tempo aveva cambiato diversi nomi. Fino al 1880 "Albergo Italia" dal 1880-1897 " Albergo Città di Vienna" e dal 1897 "Hotel Central" o Centrale, proprietario I.S.Haberleitner, nel 1908 passò a Giovanni Haberleitner.
Venne demolito nell'autunno del 1911, un anno prima della costruzione dell'Hotel Bristol.


Hotel Central demolito nel 1911


Nel 1909 James Joyce e sua moglie, appena arrivati a Trieste, passarono i primi giorni nell'Hotel Central, come lo ricorda la targhetta metallica posta in via San Nicolò.





Etichetta adesiva per bagagli


Hotel Bristol in costruzione
(coll. Paladini)
Hotel Bristol completato 
(coll. Paladini)

Note tratte da "Borgo Teresiano"  di Fabio Zubini

giovedì 10 settembre 2015

"Cici e Ciribiri"



I Cici con il tipico costume e le ciabatte basse dette "opanche"

La "Ciceria"

Questi gruppi provengono dalla Romania, nel XV secolo fuggirono dall'avanzata ottomana e vennero accolti dalla Repubblica di Venezia e dagli Asburgo per ripopolare le zone devastate dalle invasioni e dalle pestilenze. Nella parlata hanno mantenuto l'istroromeno, uno dei quattro gruppi della lingua romena.
La "Ciceria" cioè "terra dei Cici" si trova nel nord est dell'Istria montana, da Trieste a Fiume, tra i monti della Vena. Mi limito a questa descrizione per brevità, ma in realtà i confini precisi sono molto articolati.
Nel XVII secolo i Cici erano scesi fino a Opicina, Banne e Trebiciano, ma si sono mantenuti distinti dalle popolazioni confinanti per dialetto, costumi e usanze.


L'economia dei Cici

Il detto popolare "Cicio no xè per barca" nasce dal fatto che abitavano lontani dal mare e di conseguenza erano ritenuti poco adatti alla vita marittima. Questo motto viene però in parte smentito da documenti che attestano la loro presenza come fuochisti su navi italiane e dallo storico Sextil Puscariu che, fra i mestieri degli istroromeni, elenca anche quello di marinai e fuochisti sulle navi.
Vivevano anche con il commercio dell'aceto, che acquistavano in varie località istriane e rivendevano, grazie ad una patente ricevuta da Maria Teresa, nell'ambito di tutto l'impero asburgico.

Kandler riporta inoltre che dall'Istria trasportavano il sale verso i paesi dell'interno: "...il cicio davasi sovratutto al trasporto del sale dall'Istria marittima al carnio".
C'è da dire però che le attività principali, continuative ed indispensabili alla loro sopravvivenza si basavano sull'allevamento del bestiame, la pastorizia e lo sfruttamento dei grandi boschi della "Ciceria".
Con grande abilità producevano il carbone e lo portavano, assieme alla legna da ardere, anche a Trieste. Il trasporto veniva fatto con carri trainati da cavalli o da forti muli e la merce scaricata nei magazzini, oppure venduta direttamente su strada, al grido di: "Carbuna! Carbuna!".
A volte però andavano anche molto lontano a vendere i loro prodotti: latte, formaggio, lana e manufatti preparati con il legno, soprattutto cerchi e doghe per botti. Grazie alle capacità acquisite con questi commerci, iniziarono a svolgere anche l'attività di trasportatori sulle difficili e spesso inesistenti strade balcaniche.
I momenti politici difficili, come la conquista napoleonica e la prima guerra mondiale, si riflettono sulla loro economia e per sopravvivere non disdegnano di praticare il brigantaggio ed il contrabbando.
Il libro "Itinerario in Istria", dello studioso romeno Joan Maiorescu, ci fornisce una ricca documentazione sulla lingua e sulle tradizioni di questo popolo. Fra le altre cose parla della consuetudine di dare in adozione agli istroromeni, tramite l'istituto dei poveri, gli orfanelli triestini, che definisce " .. i frutti del peccato dei plutocratici triestini." Nel tempo furono assegnati circa trecento bambini, le famiglie affidatarie ricevevano un contributo ed avevano il compito di allevarli fino alla maggiore età, molti ragazzi rimasero in quei luoghi sposandosi e acquisendone la cultura. Dopo la metà dell'Ottocento questo uso andò scemando.




Cerchi per botti trasportati a spalla ed a dorso di asino.
Litografia di E. Pessi


Una coppia di Cici che trasporta i sacchi di carbone per la vendita
Litografia di E. Pessi







Video realizzato qualche anno fa da Sergio Sergas, sull'altopiano della Ciceria, dove, ancora oggi, alcuni carbonai portano avanti le loro antiche tradizioni.

I costumi

Vorrei spendere due parole sui vestiti realizzati dalle donne, sia per loro che per gli uomini, con i tessuti ricavati dalla lana che filavano in ogni momento libero.
I costumi variavano nei particolari a seconda della zona di provenienza, ma mantenevano un'impronta comune.

La donna, sopra la lunga camicia, indossava una veste aperta sul davanti, che durante i periodi freddi era in panno molto pesante, sempre fermata in vita con corregge (strisce di cuoio). Per coprire i capelli, raccolti in trecce, veniva usato un fazzoletto, legato sotto il mento o portato a turbante con i due lembi laterali che fuoriuscivano; in diverse parti veniva usata una cuffia in cotone con il bordo arricciato, fermata con un nastro, solitamente rosso. 

L'uomo usava sempre dei pantaloni in maglia di lana, abitualmente di colore chiaro ed aderenti, la camicia di cotone, un corpetto ed una giacca marrone in panno di lana. Per copricapo aveva un cappello in feltro a tesa larga con nastri colorati, nei giovani i colori dei nastri erano più vivaci, che poteva essere decorato con penne di pavone o fiori. Naturalmente la cura negli ornamenti dipendeva dall'occupazione.

Entrambi i sessi indossavano lunghe calze di lana ed ai piedi le classiche calzature in cuoio chiamate "opanke", per le festività le donne avevano una scarpa in tessuto abbellita con fiori. 


Coppia di Cici in costume tipico.
Litografia di G. Vicari 1860 c.a.

 Concluderei con una nota di cronaca relativamente recente, che è stata motivo di orgoglio per gli istroromeni, l'incontro avvenuto ad Abbazia nel 1910 con la regina della Romania Carmen Sylva.




Fonti:

"Alcune note storiche sugli istroromeni" Fulvio di Gregorio
"Teatro dei mestieri della Trieste de una volta" Elisabetta Rigotti
"Trieste Romantica" ed. Italo Svevo
"La lingua, la storia,la tradizione degli istroromeni"  dott. cav. Ervino Curtis
"Coprire per mostrare" Roberto Starez