martedì 24 novembre 2015

"El Mandrier" di via Cisternone




Sulla facciata di una delle ultime case, precisamente al n 78 di via del Cisternone, c'è una nicchia con il mezzo busto di un "mandrier", che sembra osservare la strada. Probabilmente realizzato in gesso, in origine era dipinto: aveva la giacca nera, il papillon ed in testa il caratteristico "caregon", l'abbigliamento tipico del "mandrier"; oggi risulta piuttosto deteriorato.
Il proprietario di questa casa, signor Skerl, è deceduto da tempo, per cui sull'origine del busto dobbiamo far affidamento ai ricordi delle persone. Dalle notizie tratte dai libri dei rioni di F. Zubini si legge che il busto sarebbe originario di Scorcola e dovrebbe provenire dal fondo Krausenek.  Le opinioni dei vicini sono diverse: uno afferma di aver appreso dal proprietario che il busto sarebbe il frutto di una ruberia fatta dai ragazzi della zona ai danni dei coetanei servolani, un altro vicino riporta che il proprietario gli avrebbe rivelato che sarebbe stato ritrovato da suo padre in un edificio, mentre si stavano eseguendo lavori di ristrutturazione.
Noi siamo abituati a vederlo come muto scrutatore e speriamo che possa rimanere tale ancora a lungo, in quanto tutt'ora l'edificio è in attesa di nuovi proprietari.
Leggo sul quotidiano "Il Piccolo" del 13 ottobre del 2005 un simpatico aneddoto riguardo questo busto: un medico pediatra chiamato per una visita serale a domicilio spiegava alla famiglia che, avendo avuto delle difficoltà a rintracciare l'edificio corrispondente all'indirizzo, aveva chiesto indicazioni ad un tizio affacciato ad una finestra lì vicino, il quale però non aveva voluto fornire informazioni. Come avrete intuito, nel buio non si era accorto di essersi rivolto al busto del "mandrier".


La casa di via Cisternone con il busto nella nicchia
                                    
 Nel 1912 a questa via fu attribuito il nome di "Cisternone", per la presenza di un grande serbatoio d'acqua che veniva convogliata dall'acquedotto di Aurisina sulla rete idrica cittadina. Questa cisterna venne costruita nella seconda metà del secolo scorso dalla Società "Acquedotto di Aurisina" per destinarlo ad uso della stazione ferroviaria.

Vie e Piazze di Trieste Moderna di Antonio Trampus

martedì 10 novembre 2015

Fontana del Nettuno



L'acquedotto

La Cesarea Regia Commissione alle Fabbriche (K.K. Baucommission), istituita da Maria Teresa nel 1749 per la realizzazione e direzione dei suoi progetti edilizi e portuari, aveva costruito l'acquedotto con i proventi del dazio sul pesce. La conduttura aveva inizio a San Giovanni (a quota96), dove tutt'ora esiste la costruzione del capofonte, seguiva la vallata di San Giovanni e le pendici del colle del Farneto, infine, scendendo lungo la via dell'acquedotto, arrivava in piazza San Giovanni.

La costruzione delle fontane

Per le necessità della città venne deliberato che avesse tre sbocchi pubblici: nell'antica piazza Grande ed in altre due piazze principali e che per ognuno di questi venisse costruita una fontana ornamentale in pietra bianca. Mentre l'acquedotto era stato realizzato dallo stato, l'onere della costruzione delle fontane avrebbe dovuto essere sostenuto dal comune, ma questo, oberato di spese, riuscì a far rientrare gli importi delle fontane del Nettuno e di piazza Ponterosso nella cifra complessiva dell'acquedotto, impegnandosi solo per le spese relative alla fontana dei Continenti. Le tre fontane furono commissionate a Giovanni Mazzoleni [1] che per l'esecuzione scelse la collaborazione di tre "scalpellini di fino" Giovanni Venturini, Giuseppe Grassi e Giambattista Pozzo. 
Il primo tenente di artiglieria, ingegnere Giovanni Corrado de Gerhard, direttore della Commissione alle Fabbriche stese nel marzo 1755 un accordo per la costruzione della fontana vicino al Canal Piccolo. Il contratto, approvato dal comandante militare conte de Hamilton, prevedeva dettagli, misure e la qualità del marmo di detta fontana; precisò che il Nettuno doveva essere affiancato da tre cavalli dalle bocche dei quali doveva uscire l'acqua, fra il resto dovevano venir realizzati dei bacini più piccoli per poter abbeverare il bestiame. Il lavoro doveva essere concluso in sei mesi, ma dai documenti risulta che il 7 dicembre l'autorità sollecitò il compimento dell'opera. Finalmente conclusa la fontana viene posta nell'allora piazza della Dogana[2], chiamata così perché l'unico edificio esistente, posto dove oggi sorge il Palazzo del Tergesteo, era quello della Dogana (1750-1754). Il sito era ancora extraurbano e si apriva direttamente sul mare tramite il Canal Piccolo, che verrà interrato per la costruzione del palazzo della Borsa (arch. Antonio Mollari 1802-1806).

Due viste su piazza della Borsa con la fontana del Nettuno.
Nella seconda immagine si nota che all'interno della vasca della fontana erano poste delle barre in metallo su cui appoggiare i secchi ed altri recipienti per attingere l'acqua.

Lo smantellamento

Ancora nel 1887 la fontana veniva usata dalle donne del borgo per lavare i panni. Con pretesti inconsistenti il 9 giugno 1920 la fontana venne tolta e riposta nei depositi comunali.
Pochi mesi dopo il Comune si trovò nella necessità di liberare parte del materiale conservato nei magazzini Comunali di viale Miramare 63, per la valutazione delle opere e delle pietre, il 23 settembre 1920, fu inviata una commissione della quale faceva parte il direttore del museo di Storia e Arte dott. Sticotti, lo scrittore e storico Francesco Babudri con dei maestri scalpellini e il fotografo Pietro Opiglia, nella relazione che stilarono, fra le altre cose, venne suggerito di collocare sul manto erboso che circondava il Museo di Storia Patria e del Risorgimento di villa Basevi [3], sia il Nettuno che la statua di bronzo allegoria di "Trieste" (del Monumento della dedizione di Trieste all'Austria), utilizzando uno zoccolo già presente nel deposito, per cui era prevista una modesta spesa relativa al solo costo del trasporto delle opere. Probabilmente non se ne fece nulla, dal momento che O. De Incontrera nel 1939 sulla Porta Orientale, scrisse che la fontana era ancora presente nel medesimo fondo comunale ed auspicava di poterla rivedere al più presto in qualche piazza della città, suggerendo di collocarla nello spiazzo simmetricamente opposto alla gemella fontana con il puttino in piazza del Ponterosso, area che doveva essere liberata dal mercato. La stessa proposta era stata espressa da Giulio Cesari, dieci anni prima (nella Rivista mensile della città di Trieste) ed era pure il primo progetto della piazza Ponterosso, quando questa si stava delineando nel nascente Borgo Teresiano, tanto che la sua prima denominazione nel 1764 fu "Piazza delle due Fontane", poi per motivi economici non venne realizzato.






1920 smantellamento della fontana del Nettuno, che verrà trasportata nei depositi comunali.


Piazza della Borsa dopo la rimozione della fontana del Nettuno


Il trasferimento in piazza Venezia

Trentuno anni più tardi si chiese allo scultore Nino Spagnoli di realizzare un restauro dell'opera, rivelatosi poi molto complesso avendo da ricostruire diverse parti della scultura, per porla in piazza Venezia, nel punto dove in precedenza sorgeva il monumento di Ferdinando Massimiliano, rimosso per motivi politici nel 1920. 
In occasione del restauro il comune fece stilare da Baccio Ziliotto un'epigrafe che venne scolpita sulla vasca, per fissare brevemente la storia della risorta fontana.


QUEST'OPERA 
DI GIOVANNI MAZZOLENI DA BERGAMO
DECORO' DAL MDCCLV AL MCMXX
PIAZZA DELLA BORSA
E QUI PER CURA DEL COMUNE
NEL MCMLI RISORSE


L'iscrizione di Baccio Ziliotto scolpita sulla vasca nel 1951 riassume la movimentata vita della fontana.
.


La fontana inaugurata il 30 giugno 1951 alla presenza del sindaco Gianni Bartoli e il professor Silvio Rutteri, al tempo direttore dei Musei di Storia e arte, venne collocata al centro del piccolo giardino ornato da panchine, diversi alberi, cespugli e fiori.


Piazza Venezia in una foto degli anni '50 con la fontana al centro del giardino circondata da piante e alberi.


La fontana in piazza Venezia dopo la ristrutturazione dello scultore Nino Spagnoli
foto S.Sergas

La collocazione attuale

Quando nel 1999 il Comune pensò alla riqualificazione delle maggiori piazze della città, venne bandito un concorso, che fu vinto dal gruppo di architetti Bernard Huet (1932-2001), Gaetano Ceschia e Federico Mentil i quali pensarono ad un lungo percorso pedonale che collegasse  piazza Unità a piazza della Borsa e, attraverso via Cassa di Risparmio, a piazza Ponterosso, con una fascia pavimentata con i vecchi masegni originali, assieme ad una nuova pavimentazione in pietra arenaria fiammata e pietra d'Istria chiara. Venne inoltre proposto il ritorno della fontana del Nettuno nella sua collocazione originaria. I lavori furono conclusi nel 2010 e l'inaugurazione della piazza si ebbe l'anno successivo.



Riposizionamento della fontana in piazza della Borsa, scatto realizzato da Sergio Sergas nel luglio 2010 


Nettuno Dio del mare, di tutte le acque e dei naviganti, si erge su una conchiglia posta al centro della vasca, viene rappresentato con una fluente barba, la mano sinistra impugna il tridente simbolo della divinità, mentre la destra si appoggia su un doppio riccio di gusto barocco raffigurante un'onda spumeggiante, alla base ai piedi tre cavalli, animali sacri alla divinità, dalla bocca dei quali sgorga l'acqua.









[1] Giovanni Battista Mazzoleni Zogno, 22 ottobre 1699 – Zogno, 10 novembre 1769 (Bergamo), visse nella nostra città dal 1750 al 1768.

[2] Piazza della Borsa.
Lo spiazzo che venne a formarsi all'inizio del ’700 dal progressivo interramento delle saline prospicienti alle mura civiche, venne battezzato nel 1749  Piazza del Canal Piccolo o della Portizza, con la costruzione dell' edificio Doganale (sostituito poi dal Palazzo Tergesteo) dal 1754 prese il nome di Piazza della Dogana, dopo il 1791 in seguito al trasferimento della Dogana cambiò denominazione in Piazza della Dogana Vecchia, nel 1802 con la costruzione del palazzo neoclassico di Antonio Mollari assunse il toponimo di Piazza della Borsa, dal 1939 al 1944 la piazza venne intitolata a Costanzo Ciano, dopo il '44 fu ripristinato il precedente toponimo. 

[3]  Museo di storia patria e del Risorgimento 
Giuseppe Basevi aveva fatto costruire una villa in via Besenghi 2 in una posizione dominante per godere del verde del Bosco Pontini e nel contempo poter ammirare la città.
La villa non era ancora completata quando Basevi pensò che poteva essere trasformata in un museo che rievocasse il passato storico e artistico della città, a tale scopo volle offrire l'edificio al Comune, l'atto di donazione venne stilato il 15 marzo 1901, G. Basevi morì il 1907  senza vedere realizzato il suo proposito.
La costruzione venne adattata a questa nuova sistemazione, vennero trasferite le opere dal palazzo Bisentini, arrivarono le prime collezioni e nel 1911 il salone fu aperto solo alle visite scolastiche,  il Museo di Storia Patria e del Risorgimento, fu solennemente inaugurato dal sindaco Giorgio Pitacco, il 20 dicembre 1925. 
Nove anni dopo, le collezioni risorgimentali confluirono nel Civico Museo del Risorgimento nella Casa del Combattente appositamente costruita.
Dieci anni più tardi Villa Basevi fu gravemente danneggiata da una bomba caduta nelle vicinanze, le collezioni del Civico Museo di Storia Patria furono trasferite nel palazzo Morpurgo in via Imbriani 5.  La villa Basevi lasciata andare in rovina e fu demolita nel 1961.

[4]  Baccio Ziliotto
Nato a Trieste il 10 gennaio 1880, figlio di Enrico Ziliotto, di antica famiglia vicentino-padovana, e della triestina Emma Macerata, studia nella scuola elementare fino al 1891 e poi nel Ginnasio comunale superiore.
Nel 1899 si iscrive all’Università di Vienna e successivamente all’Università di Graz, dal 1900 al 1903, quando consegue l’abilitazione all’insegnamento delle lingue classiche e dell’italiano.
Inizia la sua carriera di insegnante presso il Ginnasio italiano di Pisino, donde passa al Ginnasio comunale superiore “Dante Alighieri” di Trieste, istituto del quale sarà preside dal 1913 al 1938, allorché è costretto a lasciare la sua scuola per la posizione antiebraica assunta dal governo fascista.
Segue un periodo di isolamento; e sarà la Lega Nazionale a reinserirlo nella vita pubblica nominandolo presidente (primo del secondo dopoguerra) e a dedicargli una lapide nel quarantesimo anniversario della sua rifondazione.
Per tre anni (1915-1918 ) viene internato nei campi d’internamento austriaci.
Presidente della Società di Minerva e per tredici anni dell’Università Popolare di Trieste, svolge conferenze di musicologia, storia dell’arte italiana, cultura italiana e della Regione Giulia, storia dell’Umanesimo triestino e istriano e del Settecento giuliano.
Collabora alle riviste “Pagine istriane”, “La Porta Orientale”, “Archeografo Triestino”, “Atti e Memorie della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria”, “Giornale Storico della Letteratura Italiana”.
Tra le sue molte opere sono da citare la monografia su Capodistria (1910); La cultura letteraria a Trieste e nell’Istria. Parte prima (e unica): Dall’antichità all’Umanesimo (1913); Storia letteraria di Trieste e dell’Istria (1924); Le lettere italiane nella Venezia Giulia (1945); Dante e la Venezia Giulia (1948); Dal confine austriaco, a cura della figlia Donatella (1980); e le edizioni della Rinaldeide di Alessandro Gavardo (1946) e dell’Istrias e dei Carmina di Raffaele Zovenzoni (1950).
Scompare nell’ottobre del 1961. (Università Popolare Trieste)







Le foto pubblicate provengono da collezioni private
Bibliografia:
"Fontane a Trieste" F.De Vecchi - L.Resciniti - M. Vidulli Torlo
"Borgo Teresiano" "Borgo Giuseppino" Fabio Zubini
 "La fontana del Mazzoleni di Piazza Unità"  di Oscar Incontrera in La Porta Orientale - Trieste A. IX, n. 3-4/1939
"Le fontane di Trieste" di Giulio Cesari - Rivista Mensile della città di Trieste - febbraio 1929
"L'acquedotto Teresiano di Trieste" di Paolo Guglia.
"Trieste Itinerari" (Geo-Paleontologico) - 19 agosto 2014

lunedì 2 novembre 2015

San Giusto martire: 2 oppure 3 novembre?

Oggi siamo abituati a festeggiare San Giusto, patrono di Trieste, il 3 novembre.
Peraltro, così è scritto su ogni calendario ed agenda, e così sembrerebbe esser sempre stato... ma ne siamo sicuri?

In realtà, la decisione di festeggiare San Giusto il 3 novembre è cosa recente: la data "esatta", festeggiata fino a meno di un secolo fa, era il 2 novembre.

A ricordarcelo e confermarcelo, molti documenti storici, anche importanti... ad esempio, nel famoso Atto di accettazione della Donazione di Trieste, inviato dal Duca Leopoldo d'Austria al Dominio Tergestino del 30 settembre 1382 è scritto:

I cittadini di Trieste, i loro eredi e successori dovranno ogni anno nel giorno di San Giusto martire, il quale cade nel dì 2 di novembre, dare a Noi, ai nostri eredi e successori nella città di Trieste a titolo di censo annuo cento orne di vino Ribolla della migliore qualità che si potrà avere in quell'anno

E nell'"Acta Sanctorum Novembris". pubblicato nel 1887, la commemorazione di "S. Justus M. Tergesti" è riportata in "dies secunda":


Ed anche dai quotidiani triestini, fino al 1914 indubbiamente di desume che la festività cadeva il 2 novembre.

E allora?
Se nel 1382 cadeva il 2 novembre, ed altrettanto ancora nel 1914 ... quand'è che si è deciso di spostarlo al 3 novembre?
E per quale motivo?

Circola una spiegazione, che sa tanto di abborracciata scusa, che richiama presunte e non ben comprensibili "esigenze liturgiche": poiché il 2 novembre cade la commemorazione dei defunti, per evitarne la sovrapposizione la commemorazione di San Giusto sarebbe stata posticipata al giorno successivo...
A parte il fatto che non si comprende perché ad un certo punto questa sovrapposizione di date abbia cominciato a creare qualche problema, visto che è dall'anno di grazia 988 che ciò avveniva senza soverchi fastidi, basti osservare che il 2 novembre continuano ad essere solennemente festeggiati alcuni altri santi: ad esempio, Sant'Ambrogio Abate continua indefessamente ad esser festeggiato il 2 novembre, in barba a qualsiasi sovrapposizione...
Non solo: ma lo stesso San Giusto è patrono non solo di Trieste, ma anche di Albona-Labin; e qui viene solennemente festeggiato il 2 novembre.

Il motivo di questo altrimenti inspiegabile "spostamento" in realtà sembrerebbe essere del tutto politico: il 3 novembre 1918 era attraccata a Trieste la torpediniera Audace, ed il Regio Esercito italiano aveva occupato la città.
Si trattava della famosa "redenzione", tanto millantata e mitizzata, ma in realtà molto poco sentita dalla popolazione locale (che non tardò a soprannominare la torpediniera Audace "la maledetta barca").
Il governatore militare si trovò quindi nella necessità, già dall'anno successivo, di indurre i triestini - ormai "italiani ciapai col s'ciopo" - a festeggiare il 3 novembre, giorno della presunta "redenzione"... e quale miglior sotterfugio, se non quello di spostare inopinatamente il giorno della festività del patrono, tanto caro ai Triestini, facendolo coincidere così con l'anniversario dell'occupazione?
Detto, fatto: i Triestini si trovarono così, loro malgrado, a festeggiare il giorno della loro presunta "liberazione"...

martedì 20 ottobre 2015

Caserma Grande

Il Conservatorio dei poveri

Nel 1719 con la concessione del porto franco da parte dell'imperatore Carlo VI d'Asburgo ci fu un rapido sviluppo della città e un aumento della popolazione, essendo in quel periodo l'assistenza ai malati assicurata prevalentemente da religiosi in modesti ospedaletti, questa divenne presto inadeguata e con la patente del 1 settembre 1769 l'Imperatrice Maria Teresa volle dotare la città di un Conservatorio Generale dei Poveri, che popolarmente sarà chiamato l'Ospedale di Maria Teresa. Questo venne edificato più o meno nell'area dell'attuale piazza Oberdan a seguito dell'esproprio di alcune campagne e, come si legge nel decreto emanato dall'Imperatrice, vi era la volontà di realizzare principalmente un grande nosocomio e inoltre di assistere gli orfani, i bambini abbandonati e i poveri: "...il quale serva non tanto di ricovero, e di educazione ai Mendici, agl' Orfani ed a' bastardelli di Trieste, quanto di spedale agl' infermi dell'uno e dell'altro sesso...". Affinché la struttura potesse avere un'autonomia finanziaria nelle sue casse vennero convogliate le rendite dei piccoli ospedali soppressi e introdotto un dazio: "...ha disposto e commandato, che s'imponga il Dazio de Poveri d'un fiorino sopr'ogni Orna [1] di vino d'estero di qualunque provenienza, e di due lire per ogni Orna di giunta estera, che s'introdurrà in Trieste per consumo", ciononostante il nuovo ospedale ebbe gravi difficoltà gestionali, che nemmeno le frequenti donazioni e lasciti riuscirono completamente a sanare.

"Ospedale nuovo al di là del Torrente: progetto di costruzione" dell' ingegnere Jean Baptiste Hovyn anni 1771-72 depositato all'Archivio di Stato.

Per la costruzione fu preventivato un costo di 70.000 fiorini, che a quanto scrive Kandler venne ampiamente superato, il progetto fu realizzato dall'ingegnere belga Jean Baptiste Hovyn [2], benché i disegni siano stati realizzati da Antonio Montanelli, nel giugno 1770 iniziarono i lavori e il conservatorio entrò in funzione nel 1772.
L'edificio a due piani era di forma quadrangolare, con all'interno un ampio cortile porticato nel quale si trovavano quattro pozzi naturali, una cisterna e una fontana che provvedevano al fabbisogno idrico dell'ospedale. L'ingesso con un portale ad arco era rivolto alla via del Torrente (attuale via Carducci), posizione non felice in quanto nella zona l'aria era malsana e molto umida per la vicinanza al torrente, che con le acque inquinate scorreva a cielo aperto (fino al 1837, data d'inizio dei lavori di copertura) e al maleodorante macello costruito nel 1780.


Dettaglio di una mappa del 1769 firmata Vincenzo Struppi - in alto a sinistra, affacciato alla via del Torrente (attuale via Carducci) è già posizionato il Conservatorio dei poveri ancora da costruire. A sinistra della mappa sono segnate delle colture di viti e si può notare che tutta l'area "al di là del torrente" è ancora da edificare. Al centro il "neuer grosser Canal" che avrebbe potuto ospitare fino a 42 navi. uno dei progetti dell'epoca, mai realizzato, finalizzato ad aumentare la capacità del porto.

Il Conservatorio disponeva di 100 posti letto per i trovatelli, 40 per gli ammalati e 100 per i poveri, al pianterreno si trovavano l'ospedale, l'orfanotrofio, l'ospizio, l'abitazione del direttore, le cucine, la chiesa, la sacrestia, l'abitazione dei sacerdoti e quattro celle per i detenuti infermi, al piano superiore altre zone riservate all'ospedale, all'orfanotrofio e all'ospizio alle quali si aggiungevano i locali per l'amministrazione. Dietro l'edificio c'era un orto botanico dove venivano coltivate le erbe medicinali per la preparazione dei farmaci e un orto coltivato da privati che forniva giornalmente la verdura alle cucine. Per sopperire alla cronica mancanza di fondi gli orfani di età superiore ai dieci anni e alcune degenti collaboravano alla conduzione dello stesso.

Nell'aprile del 1784 durante la sua visita a Trieste l'Imperatore Giuseppe II (1741-1790)[3] accompagnato dal dottor Giovanni Alessandro Brambilla, suo medico personale e caporeparto dell'Ospedale Militare di Vienna, effettuò un sopralluogo al Conservatorio e decise che sarebbe stato trasformato in caserma con annesso l'Ospedale Militare. L'anno successivo i malati vennero trasferiti nel comprensorio di via del Castello e via dell'Ospitale, dove il Comune aveva acquistato l'ex Episcopio e alcuni edifici vicini, che per l'occasione furono adattati a ospedali civici e qui vi rimasero fino al 1841, data dell' apertura dell'Ospedale Civico, l'attuale Ospedale Maggiore.



In questa immagine è visibile parte del cortile interno della caserma, dal lato di via Coroneo. L'edificio per la Scuola dei Cadetti è da poco concluso, manca la grande scritta "K.u.K Infanterie Cadettenschule" e le aiuole.

In questa mappa del 1788, realizzata alla fine del regno di Giuseppe II, si vede, vicino al torrente Klutsch, l'ospedale ormai convertito in caserma.


La conversione in caserma

L'obiettivo che si voleva raggiungere con la conversione del Conservatorio in Caserma era quello di contenere le spese militari derivate dai vari dislocamenti e di avere la milizia concentrata in un medesimo edificio. Nel 1785 vennero intrapresi i lavori di ampliamento, l'adiacente orto botanico e un fondo coltivato vennero spianati per ricavare la piazza d'armi, durante gli scavi furono trovate due lapidi mortuarie e altri reperti di epoca romana ora conservati nel lapidario. Nella caserma sorsero le costruzioni con i nuovi alloggi, i magazzini, il deposito delle provvigioni e della farina con i forni, più una vasta zona riservata alle scuderie.
La caserma nel tempo vide un avvicendarsi di numerosi battaglioni con soldati dalle differenti nazionalità e nel 1883, con la riorganizzazione dell'esercito austro-ungarico, divenne stabilmente sede del 97° reggimento di fanteria.


In basso il Torrente Grande con il ponte di legno davanti all'ingresso della Caserma, a sinistra sale la strada di Romagna. Nel 1781 il dazio venne trasferito all'inizio della via Commerciale Nuova o di Vienna (attuale via Martiri della Libertà), alla lettera "R" (nell'angolo in basso a sinistra) l’ufficio d'esazione delle gabelle e pedaggi con relativa spranga, stranga (dal tedesco schranke) o barriera.  - "I" piazza per gli esercizi militari - "O" cortile con stalla e rimessa - "H" Caserma con il cortile e i pozzi - "M" Forni -  "N" Magazzini della farina - "K"  Ospedale Militare con l'ingresso sulla via del Coroneo.
Dettaglio di una mappa del 1808 tratta dal libro "Conservatorio dei Poveri - La Caserma Grande - K.U.K. Infanterie Cadettenschule - Trieste" di Antonio Paladini.

Fra il 1786 al 1789 adiacente alla caserma veniva eretto il primo Ospedale Militare, durante i lavori una parte della caserma stessa fu adibita a ricovero per gli infermi.
Il nuovo edificio era a pianta rettangolare e si sviluppava su tre livelli con gli ingressi rivolti alla via del Coroneo, disponeva di 126 posti letto distribuiti in quattro cameroni separati da tende o mobili, i 18 servizi igienici erano posti nei retrocorpi a torretta, inoltre era provvisto di un deposito, un laboratorio, alcuni ambulatori e un cappella per le funzioni religiose.
Rimase in attività fino al 1868, poi venne trasferito nel nuovo Ospedale Militare appena concluso in via Fabio Severo, all'epoca denominata via Commerciale nuova o Strada nuova d'Opicina.


La Scuola dei Cadetti di Fanteria

L'edificio fino ad allora adibito a ospedale venne ampliato con l'aggiunta in continuità di un altro corpo di fabbrica, ristrutturato negli interni e adeguato alle nuove necessità, dal 1875 diventerà sede della Scuola dei Cadetti di Fanteria.
Le scuole per i cadetti, dette anche Kadettenanstalten, facevano parte parte delle "istituzioni militari-educative e didatticche" che avevano lo scopo di trasmettere ai loro allievi, oltre alla formazione generale, quelle conoscenze teoriche che l'ufficiale aveva bisogno per esercitare la sua professione.


Copertina del volume edito in occasione del ventennale della Scuola dei Cadetti di fanteria.

In alto si vede parte della scritta apposta sul muro interno della caserma
K.u.K. Infanterie Cadettenschule.



Immagini tratte dal volume sopra citato.

L'ampliamento

Nel 1820 venne donato dal Comune un terreno confinante, la piazza d'armi divenne molto estesa e oltre ad essere usata per le esercitazioni militari, ospitò: spettacoli, corse di bighe, esercitazioni di cavallerizzi e di gruppi ginnici, ascensioni aerostatiche, circhi equestri. Si creò uno ampio spazio anche dietro alla caserma, in questo luogo si teneva principalmente il commercio di paglia e fieno e venne denominata "Piazza del Fieno".


In questa immagine tratta dal libro Trieste Antica e Moderna di E. Generini, si vede la piazza del Fieno, a destra si notano le lastre di arenaria che saranno usate per la pavimentazione; il grande capannone sulla destra è un deposito per il legname addossato al lavatoio pubblico; l'edificio lungo era dedicato alla macellazione dei piccoli animali e veniva chiamato il "macelletto".

Alla fine della via del Torrente, oggi via Carducci, la vasta piazza della Caserma. Possiamo vedere in transito la carrozza n° 1, in seguito divenuta storica, in quanto il 9 settembre 1902 la Società Anonima delle Piccole Ferrovie attivò la linea Trieste-Opicina con il veicolo contrassegnato con questo numero.


 1917 - Veduta aerea da ottocento metri.
In alto la piazza d'Armi e la Caserma, si nota il muro che circondava l'area militare, davanti all'ingresso la piazza della Caserma con il particolare fontanone ottagonale che sarà demolito nel 1923.
Da: l'album dedicato a Marie Therese von Braganza dagli ufficiali della compagnia aerea n. 28 -  Foto ÖNB


La "Piazza della Caserma"

Nel 1838 iniziò la copertura con triplice arcata del torrente Klutsch, che scorreva fino a quel momento scoperto lungo la strada, i lavori si conclusero nel 1850. Con questo nuovo assetto davanti alla caserma venne a crearsi un ampio piazzale, che si chiamerà prima "Piazza della Caserma" e che poi con delibera della Giunta Municipale del 11.11.1918 sarà dedicato a Guglielmo Oberdan, il quale fu giustiziato nel cortile della caserma il 20 dicembre 1882, nello stesso luogo il 20 dicembre del 1918 avvenne la prima pubblica commemorazione del patriota, seguita dall'intitolazione della Caserma.
Il luogo del supplizio di Guglielmo Oberdan con interrata la grande targa di bronzo posta in occasione della commemorazione del 20 dicembre 1918, sul muro della caserma la lapide in pietra donata dalla Brigata Catanzaro il 16.11.1919. Entrambe ora sono collocate nel Sacrario Oberdan

Curiosità

Quando fu conclusa la chiesa San Vincenzo de Paoli, a ogni festività religiosa gran parte della guarnigione si recava ad assistere alla messa. In testa alla lunga colonna marciava la banda e il tamburo era fissato su un cavallino bianco. I musicisti salivano sulla cantoria della chiesa per accompagnare la funzione religiosa.

Nel suo libro Lorenzutti racconta che a metà della quaresima in caserma usassero "segar la vecia", ossia un pupazzo fatto di stracci che rappresentava la vecchia e che quel giorno veniva segato in due parti per far sapere che si era giunti a metà della quaresima e poteva venir ridotto il digiuno ecclesiastico, una tradizione che si perse nel tempo e di cui rimase solo il detto.

 
Il piazzale d'armi durante una parata militare, a dimostrazione che la piazza d'armi veniva usata anche come campo di gioco sulla linea perimetrale si vede la struttura in metallo di una porta da calcio. Dopo il muro della Caserma, il Palazzo di Giustizia in costruzione e la Torre dei Pallini che si staglia contro il cielo.

Un particolare simpatico legato alla Caserma riguarda la squadra di calcio della nostra città, che è nata ufficialmente il 2 febbraio 1919 dalla fusione di due squadre: il Ponziana e il Foot-Ball Club Trieste, prima di questa data i due club condividevano quale campo di gioco la Piazza d'Armi della Caserma Grande, il Comando Militare al fine di limitare gli inconvenienti che derivavano dagli incontri, dopo aver proibito l'uso della piazza, decise che l'autorità avrebbe acconsentito all'utilizzo della Piazza d'Armi per finalità sportive a patto che le due società si fondessero, nacque così l’Unione Sportiva Triestina Calcio, l'accordo avvenne il 18 dicembre 1918 nello storico caffè Battisti sito in viale XX settembre 32.
Dopo qualche anno iniziò la costruzione di un campo sportivo su un' area a Montebello, dove dal 1921 l'Unione giocherà le partite casalinghe fino al 25 settembre 1932 [4].


Foto ripresa dalla piazza della Caserma, dal novembre 1918 piazza Guglielmo Oberdan, con la sistemazione di quest'ultima si formerà un nuovo largo, che nel giugno 1925 sarà denominato piazza Dalmazia. Come si può vedere a sinistra stanno iniziando le demolizioni dell'edificio.
Foto collezione Sergio Sergas.

Il trasferimento

Nel 1927, conclusa la costruzione delle caserme di Rozzol, la guarnigione della Caserma Grande venne trasferita in questi nuovi alloggi.
Nello stesso anno inizieranno le demolizioni dell'edificio, del quale verrà conservata la cella dove Guglielmo Oberdan fu recluso dal 7 ottobre al 20 dicembre 1882 e il luogo esatto dove venne impiccato.


Cortile della Caserma, in fondo si scorge la casa di gusto liberty di via Romagna. Nell'edificio sono in atto i lavori di demolizione, all'angolo il luogo del supplizio di G. Oberdan che verrà conservato assieme alla vera di pozzo all'esterno della Casa del Combattente in via XXIV Maggio.


Verso la fine del mese di luglio 1931, sotto la direzione dell'ing. Rodolfo Coppa, iniziarono i lavori di recupero e salvaguardia della cella e dell'anticella di Oberdan. L'architetto U. Nordio propose di aggiungere alla Casa del Combattente, da poco iniziata, un porticato che avrebbe circoscritto il Sacrario, dove sarebbero stati accolti sia il monumento bronzeo di Attilio Selva, che raffigura Oberdan tra le allegorie di Patria e Libertà, che la costruzione per conservare degnamente il cubìcolo, quest'ultima venne inaugurata il 15 giugno 1932 (anniversario della battaglia sul Piave) alla presenza di S.A.R. Amedeo di Savoia duca d'Aosta.

Dopo le demolizioni si verrà a creare un vasto spazio libero di proprietà del comune, in una zona centrale della città, in un momento in cui era in atto una rivoluzione urbana che porterà a riprogettare  molte zone di Trieste. Approfittando di questa situazione venne fatto erigere un edificio su progetto dell'architetto Privileggi, dove nel 1937 fu trasferito il Ginnasio Comunale italiano, intitolato dal 1920 a Dante Alighieri, già da tempo in attesa di una sede adeguata all'elevato numero di iscritti.


In questa mappa del 1890, si vede come come erano disposti i vari edifici della Caserma e la piazza retrostante. Interessante è anche confrontare la denominazione stradale con quella della mappa sottostante.


In questa mappa successiva si vede la Caserma Grande con la piazza d'armi, le linee tratteggiate indicano gli edifici che andranno a occupare questi spazi. Verrà creata la piazza Oberdan seguendo un disegno architettonico che è quello caratteristico di quella che verrà definita “Esedra Oberdan”, con i palazzi disposti a semicerchio dai quali si dipartono tre assi viari; uno di questi porterà al Palazzo di Giustizia, che fu la prima costruzione del quartiere, iniziata nel 1912 con la posa della prima pietra e dopo sospensioni e variazioni del progetto, conclusa nel 1934.





Note
[1] L'orna è l'unità di misura più comune per i liquidi, è suddivisa in 40 boccali e corrisponde a 1 Eimer viennese, 12.33 galloni imperiali e 56.6 litri.

[2] Dalla relazione scritta da Pierpaolo Dorsi a conclusione dei lavori di riorganizzazione dell' "L'Archivio Piani" conservato presso l'Archivio di Stato riporto la parte riguardante il "Conservatorio dei Poveri" - ...Il riordinamento ha consentito di ricomporre gli elementi del progetto (1770), che ora può venir attribuito a Jean Baptiste Hovyn, "cadetto ingegnere" di origine belga, allora in forza alla Direzione delle Fabbriche del Litorale.
NOTA - Hovyn fu allievo e collaboratore di Maximilien Frémaut, per raccomandazione del quale venne assunto presso la Commissione alle fabbriche del Litorale (cortese comunicazione del prof. I. Nadasdi di Bruxelles)... Viene a cadere l'attribuzione del progetto dell'ospedale teresiano ad Antonio Montanelli, che nell'occasione coprì il ruolo di semplice copista d'ufficio.

[3] Pochi mesi dopo l'improvvisa morte del padre, l'imperatore Francesco, avvenuta il 18 agosto 1765, Giuseppe fu eletto imperatore del Sacro Romano Impero e dal 17 settembre 1765 condivise il trono dell'arciducato d'Austria con la madre l'Imperatrice Maria Teresa fino alla sua morte avvenuta il 29 novembre 1780, poi continuò come unico regnante.

[4] Il 25 settembre 1932 è il giorno dell'inaugurazione del nuovo "stadio del Littorio" a Valmaura, il quale manterrà questo nome fino al 25 luglio 1943, divenendo poi "stadio comunale" fino alla stagione 1967-68, con l'inizio della quale fu ufficialmente intitolato al calciatore Giuseppe o Pino Grezar (Trieste, 25 novembre 1918 – Superga, 4 maggio 1949) che perì con tutto il resto della squadra del Torino nella tragedia di Superga.




Fonti:
Ospedali della Trieste Passata di Claudio Bevilacqua
"L'Istria" 24 novembre 1846 giornale di Pietro Kandler
Documenti - per servire - Alla conoscenza delle condizioni legali del Municipio ed Emporio - di Trieste di Pietro Kandler
"L'Archivio Piani" della Direzione delle fabbriche del litorale di Pierpaolo Dorsi (pag. 94)
Borgo Teresiano di Fabio Zubini
Trieste Antica e Moderna di Ettore Generini
Trieste Romantica ed Italo Svevo
Trieste e il Borgo Teresiano di Dario Pagnanelli
Vecchia Trieste di Lorenzo Lorenzutti
"Conservatorio dei Poveri - La Caserma Grande - K.U.K. Infanterie Cadettenschule - Trieste" di Antonio Paladini

mercoledì 30 settembre 2015

"El Corso delle Viole"


Dal 1860 il mercoledì delle ceneri, primo giorno di quaresima, dopo aver partecipato al rito della pubblica penitenza, dove il sacerdote con i paramenti viola spargeva sul capo dei fedeli le ceneri ottenute bruciando i rami d’ulivo benedetti la domenica delle Palme dell’anno precedente e gli altari e i banchi venivano ornati con le viole scure che diffondevano il loro profumo in tutta la chiesa, si apriva una momento di laica mondanità. 
Lungo il passeggio di Sant'Andrea si svolgeva una sfilata aristocratica post-carnevalesca, senza maschere e senza schiamazzi, che veniva detto "El corso delle viole" per la grande profusione di questi fiori dal colore simbolico, nelle acconciature delle dame, nelle decorazioni delle vetture e in ogni dove.
Consisteva in una cavalcata di signori in tuba e di eleganti amazzoni, seguiti da carrozze equipaggiate con gran lusso e tirate da superbi cavalli di razza, nelle quali sedeva il fior fiore della città. Le vetture erano tutte scoperte, perché era pure un'occasione di sfoggio di belle toilette, di ampi mantelli, ricchi scialli e cappelli piumati. Le carrozze più ampie erano i landau che potevano ospitare quattro persone nei due sedili vis à vis, perchè questa era anche una competizione fra chi possedeva il veicolo più elegante e la tappezzeria più lussuosa. La sfilata dava un ultimo saluto al carnevale  procedendo, accompagnata dalla musica di una banda, fra due ali di pubblico stupito e curioso.  

Nei primi anni del secolo, quando tutta Sant'Andrea fu trasformata in un cantiere per la costruzione del nuovo porto e della nuova stazione ferroviaria, il corso si spostò alla più accogliente riviera di Barcola, dove fiorì ancora per tre o quattro anni, poi via via andò scemando l'interesse per questa manifestazione.


Passeggio Sant'Andrea, qui ancora denominato Strada di Sant'Andrea per Servola con evidenziato quello che era definito il "giro delle carrozze", si trattava di uno splendido viale alberato, molto ampio, con a destra la vista del mare.


Un'elegante carrozza trainata da due splendidi cavalli bianchi sfila lungo la riviera barcolana

Il mercoledì delle ceneri aveva le sue celebrazioni anche a Servola e San Giovanni, dove veniva bruciato un fantoccio che rappresentava il carnevale ormai finito. La giornata rappresentava però un'ulteriore occasione di festa per la gente di Trieste stradaiola, con la passione per il chiasso e l'allegria, difatti in queste località le osterie rimanevano aperte tutta la notte per sostenere con un buon bicchiere i gaudenti partecipanti.

Con la fine del secolo l'interesse per il carnevale andò declinando, fino a cessare nel periodo del primo conflitto mondiale.


I triestini si dispongono lungo la riviera di Barcola a guardare le carrozze che sfilano guidate da distinti cocchieri.
Cerimonia di premiazione del Corso delle Viole del 1906. Il palco d'onore è posto nell'aiuola di fronte a Villa Jakic. Si vedono calessini, "brum" con cavalli singoli o pariglie, a sinistra un autocarro addobbato con i fiori. In primo piano la giuria sta osservando un calessino con pariglia e palafreniere.







Fonti:
"Vecchia Trieste" granellini di sabbia Lorenzo Lorenzutti
"Trieste che passa" Adolfo Leghissa
"Trieste-Spunti dal suo passato" Silvio Rutteri
"San Vito" Alfieri Seri - Sergio Degli Ivanissevich

martedì 29 settembre 2015

Hotel Bristol

Nel 1912 l'architetto Enrico Nordio realizzò questo palazzo di cinque piani in stile neogotico veneziano, da utilizzare come albergo, in via Ponterosso 4 (oggi via Roma) angolo via San Nicolò. I proprietari erano Ugo Zauli e Giovanni Sautter, che avevano già in gestione l'Hotel de la Ville.


Sulla facciata di via Roma si può vedere il bassorilievo del leone di San Marco,
opera di Gianni Marin


Lapide con l'iscrizione dettata da Attilio Hortis, presente nella casa precedente, distrutta dagli austriaci nel 1916. Venne posta nel nuovo edificio il 25 marzo 1934 dalla comunità greca di Trieste. La piccola targa sottostante riporta un verso dantesco del Paradiso che parla della famiglia degli Ughi.

Sulla facciata di via San Nicolò c'è una targa in ricordo di Pasquale Besenghi degli Ughi, morto di colera nel 1849 nell'edificio precedente, sede di un altro albergo, che nel tempo aveva cambiato diversi nomi. Fino al 1880 "Albergo Italia" dal 1880-1897 " Albergo Città di Vienna" e dal 1897 "Hotel Central" o Centrale, proprietario I.S.Haberleitner, nel 1908 passò a Giovanni Haberleitner.
Venne demolito nell'autunno del 1911, un anno prima della costruzione dell'Hotel Bristol.


Hotel Central demolito nel 1911


Nel 1909 James Joyce e sua moglie, appena arrivati a Trieste, passarono i primi giorni nell'Hotel Central, come lo ricorda la targhetta metallica posta in via San Nicolò.





Etichetta adesiva per bagagli


Hotel Bristol in costruzione
(coll. Paladini)
Hotel Bristol completato 
(coll. Paladini)

Note tratte da "Borgo Teresiano"  di Fabio Zubini

giovedì 10 settembre 2015

"Cici e Ciribiri"



I Cici con il tipico costume e le ciabatte basse dette "opanche"

La "Ciceria"

Questi gruppi provengono dalla Romania, nel XV secolo fuggirono dall'avanzata ottomana e vennero accolti dalla Repubblica di Venezia e dagli Asburgo per ripopolare le zone devastate dalle invasioni e dalle pestilenze. Nella parlata hanno mantenuto l'istroromeno, uno dei quattro gruppi della lingua romena.
La "Ciceria" cioè "terra dei Cici" si trova nel nord est dell'Istria montana, da Trieste a Fiume, tra i monti della Vena. Mi limito a questa descrizione per brevità, ma in realtà i confini precisi sono molto articolati.
Nel XVII secolo i Cici erano scesi fino a Opicina, Banne e Trebiciano, ma si sono mantenuti distinti dalle popolazioni confinanti per dialetto, costumi e usanze.


L'economia dei Cici

Il detto popolare "Cicio no xè per barca" nasce dal fatto che abitavano lontani dal mare e di conseguenza erano ritenuti poco adatti alla vita marittima. Questo motto viene però in parte smentito da documenti che attestano la loro presenza come fuochisti su navi italiane e dallo storico Sextil Puscariu che, fra i mestieri degli istroromeni, elenca anche quello di marinai e fuochisti sulle navi.
Vivevano anche con il commercio dell'aceto, che acquistavano in varie località istriane e rivendevano, grazie ad una patente ricevuta da Maria Teresa, nell'ambito di tutto l'impero asburgico.

Kandler riporta inoltre che dall'Istria trasportavano il sale verso i paesi dell'interno: "...il cicio davasi sovratutto al trasporto del sale dall'Istria marittima al carnio".
C'è da dire però che le attività principali, continuative ed indispensabili alla loro sopravvivenza si basavano sull'allevamento del bestiame, la pastorizia e lo sfruttamento dei grandi boschi della "Ciceria".
Con grande abilità producevano il carbone e lo portavano, assieme alla legna da ardere, anche a Trieste. Il trasporto veniva fatto con carri trainati da cavalli o da forti muli e la merce scaricata nei magazzini, oppure venduta direttamente su strada, al grido di: "Carbuna! Carbuna!".
A volte però andavano anche molto lontano a vendere i loro prodotti: latte, formaggio, lana e manufatti preparati con il legno, soprattutto cerchi e doghe per botti. Grazie alle capacità acquisite con questi commerci, iniziarono a svolgere anche l'attività di trasportatori sulle difficili e spesso inesistenti strade balcaniche.
I momenti politici difficili, come la conquista napoleonica e la prima guerra mondiale, si riflettono sulla loro economia e per sopravvivere non disdegnano di praticare il brigantaggio ed il contrabbando.
Il libro "Itinerario in Istria", dello studioso romeno Joan Maiorescu, ci fornisce una ricca documentazione sulla lingua e sulle tradizioni di questo popolo. Fra le altre cose parla della consuetudine di dare in adozione agli istroromeni, tramite l'istituto dei poveri, gli orfanelli triestini, che definisce " .. i frutti del peccato dei plutocratici triestini." Nel tempo furono assegnati circa trecento bambini, le famiglie affidatarie ricevevano un contributo ed avevano il compito di allevarli fino alla maggiore età, molti ragazzi rimasero in quei luoghi sposandosi e acquisendone la cultura. Dopo la metà dell'Ottocento questo uso andò scemando.




Cerchi per botti trasportati a spalla ed a dorso di asino.
Litografia di E. Pessi


Una coppia di Cici che trasporta i sacchi di carbone per la vendita
Litografia di E. Pessi







Video realizzato qualche anno fa da Sergio Sergas, sull'altopiano della Ciceria, dove, ancora oggi, alcuni carbonai portano avanti le loro antiche tradizioni.

I costumi

Vorrei spendere due parole sui vestiti realizzati dalle donne, sia per loro che per gli uomini, con i tessuti ricavati dalla lana che filavano in ogni momento libero.
I costumi variavano nei particolari a seconda della zona di provenienza, ma mantenevano un'impronta comune.

La donna, sopra la lunga camicia, indossava una veste aperta sul davanti, che durante i periodi freddi era in panno molto pesante, sempre fermata in vita con corregge (strisce di cuoio). Per coprire i capelli, raccolti in trecce, veniva usato un fazzoletto, legato sotto il mento o portato a turbante con i due lembi laterali che fuoriuscivano; in diverse parti veniva usata una cuffia in cotone con il bordo arricciato, fermata con un nastro, solitamente rosso. 

L'uomo usava sempre dei pantaloni in maglia di lana, abitualmente di colore chiaro ed aderenti, la camicia di cotone, un corpetto ed una giacca marrone in panno di lana. Per copricapo aveva un cappello in feltro a tesa larga con nastri colorati, nei giovani i colori dei nastri erano più vivaci, che poteva essere decorato con penne di pavone o fiori. Naturalmente la cura negli ornamenti dipendeva dall'occupazione.

Entrambi i sessi indossavano lunghe calze di lana ed ai piedi le classiche calzature in cuoio chiamate "opanke", per le festività le donne avevano una scarpa in tessuto abbellita con fiori. 


Coppia di Cici in costume tipico.
Litografia di G. Vicari 1860 c.a.

 Concluderei con una nota di cronaca relativamente recente, che è stata motivo di orgoglio per gli istroromeni, l'incontro avvenuto ad Abbazia nel 1910 con la regina della Romania Carmen Sylva.




Fonti:

"Alcune note storiche sugli istroromeni" Fulvio di Gregorio
"Teatro dei mestieri della Trieste de una volta" Elisabetta Rigotti
"Trieste Romantica" ed. Italo Svevo
"La lingua, la storia,la tradizione degli istroromeni"  dott. cav. Ervino Curtis
"Coprire per mostrare" Roberto Starez