venerdì 19 agosto 2022

OSTERIA DEL FUMO

 

Via di Riborgo, a destra l'edificio dove nacque Ireneo della Croce e che fu sede di vari pubblici esercizi fra i quali l'osteria "del fumo", in primo piano, sullo stabile a sinistra della strada l'insegna dell'osteria "Andemo de Silvio".

L'osteria era sede d'incontro e d'evasione, in particolare per operai, braccianti e marittimi, luogo in cui si poteva ovviamente bere qualche bicchiere, intonare canzonette, giocare a carte e alla morra (gioco molto antico, colpito spesso da divieti, perché dava origine a violente risse), ma anche dove parlare di lavoro, di rivendicazioni sindacali e politica, tanto che alcuni locali divennero noti, perché furono ritrovo di artisti, intellettuali, spiriti patriottici e irredentisti.

Nell'800 a Trieste le locande, osterie, caffè, bettole, liquorerie, birrerie o pubblici esercizi di vario ordine, erano concentrati soprattutto in città vecchia e solo lungo la via di Riborgo, a fine '800, fra caffè, osterie e liquorerie i locali attivi erano ben otto, con nomi che variavano a seconda del periodo, delle mode, ma che venivano pure spesso ribattezzate dai triestini secondo il loro gusto.


Lungo la via del Riborgo al civico 8 ho evidenziato la casa natale di Giovanni Maria Manarutta, dal 1649 Fra Ireneo della Croce, molti anni dopo sede dell'osteria "del fumo",
dettaglio della mappa del 1912 di Michele Pozzetto.

Questa via dalle nobili origini, un tempo contrada principale della città medioevale, era abitata dai cittadini appartenenti ai ceti più abbienti e nonostante la modesta ampiezza, che variava dai tre ai quattro metri, godeva di un rilevante movimento di merci e persone. Il suo tracciato corrispondeva più o meno all'attuale via del Teatro Romano e si estendeva dalla porta cittadina di Riborgo fino all'incrocio con la contrada Malcanton.


L'edificio all'interno del quale si trovava l'osteria del Fumo, in via del Riborgo angolo via del Rosario. Nei locali dove si vede l'insegna "Latteria Soresina" si alternarono varie attività fra le quali, dal 1919, una stazione di Pronto Soccorso del Fascio Sanitario.

Una lapide posta sopra l'ingresso dello stabile attiguo alla chiesa del Rosario, al civico N° 8 (PT 51) di contrada Riborgo, ricordava che il 25 maggio 1625 qui vi aveva avuto i natali lo storiografo Giovanni Maria Manarutta, dal 1649 Fra Ireneo della Croce, il primo che abbia scritto la storia di Trieste dalle sue origini. La lapide, dettata dallo storico Pietro Kandler, era stata collocata nel 1853 dal proprietario dell'edificio e cultore delle memorie della città, Lodovico Kert, in occasione di un restauro.


Al di sopra dell'ingresso della casa nativa di Ireneo della Croce si vede l'iscrizione posta da Lodovico Kert nel 1853, diversi anni dopo, da questo stesso portone, attraverso un cortile, si accederà invece all'osteria del fumo.
Foto collezione Sergio Sergas.

Negli ultimi anni dell'800 nell'edificio si trovavano ben tre osterie, che evidentemente non temevano la concorrenza, una delle quali era l'osteria del fumo.


Osteria del Fumo
Il locale che, all'inizio del '900 era gestito da Giovanni Celich, era noto come osteria "del fumo" dal momento che essendo privo di finestre ben presto si saturava con il fumo delle sigarette, sigari e pipe degli avventori.

Per non togliere nulla alla gustosa ed efficace descrizione, riporto alcuni passi scritti dall'acuto e ironico osservatore A. Leghissa [1]: "...nel fondo del corridoio, una stretta porticina metteva in un metro quadrato di corticella, anche questa soffocata dall'alto muro dell'abside della vecchia chiesa del Rosario. L'osteria il cui proprietario era un un dalmata ex marinaio, aveva cambiato più volte di nome e di padrone, sempre dalmata, assumendo il titolo secondo la cittadinanza del nuovo gestore: Lesina, Curzola, Brazza, Spalato, Sebenico, Traù...", il nome ufficiale comunque non aveva importanza in quanto la gente del rione l'aveva ormai battezzata osteria del fumo.
Dal momento che, come detto, era priva di finestre, la luce veniva data da due lampade a gas che ardevano in permanenza e l'accesso all'esercizio era così stretto da permettere il passaggio di una sola persona per volta: "A destra vicino l'entrata, v'era la catasta delle botti, davanti a queste il banco di mescita che prendeva metà dell'ingresso...". "Dietro al banco stava seduto l'oste il quale riceveva le ordinazioni dai clienti senza mai però levarsi di là per servire al tavolo se gli intervenuti non raggiungevano almeno il numero di quattro. Fino a tre dovevano recarsi al banco e ritirare di propria mano il richiesto, pagando per cassa.", uno strano sistema che pare venisse accettato da tutti.
"I tavoli, fiancheggiati da solide panche, erano collocati lungo le pareti così che il mezzo formava una specie di corsia simile a quella dei carrozzoni ferroviari di terza classe.".

Sulla parete ingiallita era appesa una tabella con un gallo che recava la scritta: "Quando questo gallo canterà credenza si farà.", verso sera il fumo diventava così denso da avvolgere ogni cosa e formare delle nuvole che aleggiavano nell'aria opaca, si appannava il vetro dell'immagine di San Simone collocata su una mensola, poi si svolgevano i riti comuni a tutte le osterie: si giocava, si stringevano patti di amicizia fraterna, si levavano i cori e si prendevano solenni sbornie.

Frequentata da braccianti, marittimi, carbonai di bordo, l'oste li conosceva tutti e si era creato un clima familiare, verso la mezzanotte, ora di chiusura, con l'aiuto di un amico l'oste faceva uscire gli avventori, quelli che non erano più in grado di reggersi sulle gambe, d'estate li collocava sul marciapiedi a lato della chiesa del Rosario in attesa che la brezza mattutina li risvegliasse, mentre in inverno avvisava le famiglie affinché li venissero a recuperare, per quanto, per i parenti dei forti bevitori la sera era uso fare la ronda alla ricerca dei congiunti, pare infine che per gli avventori più sbronzi, ottenebrati dal forte "Dalmato nero" o dal famoso "Opollo di Lissa", lo scrupolo dell'oste arrivasse al punto di scrivere sulla giacca dei clienti il nome e l'indirizzo di casa con il gesso, proprio come veniva fatto per le mercanzie a bordo dei piroscafi.

Via del Riborgo, il primo ingresso porta il civico N 6 e l'insegna "Vini Marsala Vermouth", dal 1892 per diversi anni qui si trovava un'osteria denominata "Al Cappello", susseguente il N 8 con la nota osteria del fumo gestita da Giovanni Celich; dopo la via del Rosario, uno stabile edificato nel 1884, che ospitò la scuola popolare e cittadina di Città vecchia, in seguito intitolata a Felice Venezian (1851-1908).
Foto tratta dalla "Rivista della Città di Trieste".


 A destra la Chiesa della Beata Vergine del Rosario e a sinistra la casa natia di Ireneo della Croce in attesa di demolizione, in primo piano, a destra, un angolo del palazzo che ospitò la scuola F. Venezian, risparmiato dalle demolizioni degli anni '30.
Foto collezione Sergio Sergas.

L'osteria rimase in attività fino a che il fabbricato venne abbattuto, come contemplato dal Piano Regolatore reso esecutivo dal podestà Salem nell'estate del 1934, che prevedeva la demolizione di gran parte degli edifici della zona, per il risanamento di Città Vecchia e la realizzazione del "Corso Littorio", denominazione apposta nel 1939, che nel 1943 mutò in "Corso del Teatro Romano" e nel 1946 infine in "Via del Teatro Romano".

Parte dell'abside della chiesa del Rosario dopo la demolizione dell'adiacente casa natale di Ireneo della Croce.
Foto Antonio Ciana 26 dicembre 1936.


I problemi dell'alcol
Come già detto, a Trieste le osterie erano in gran numero e sempre molto frequentate, nella "Guida della Città" del 1900 sono registrate ben 527 osterie, 165 trattorie e 132 liquorerie, delle quali rispettivamente 65, 20 e 13 si trovavano in città vecchia.

Nella cultura popolare al vino venivano attribuite facoltà farmacologiche e una buona bevuta era ritenuta salutare, ma spesso la bevanda di Bacco aiutava soprattutto a dimenticare le sofferenze, le difficoltà economiche, l'insicurezza del domani, gli alloggi sovraffollati e inospitali, un'abitudine nociva che facilmente si trasformava in dipendenza, le conseguenze della quale coinvolgevano tutta la famiglia del bevitore.
 
 
Quasi di fronte all'osteria del Fumo, al civico 11 si trovava la "Trattoria Sabadin", in questa foto le demolizioni sono già iniziate, si respira un'atmosfera trasandata di chi sa di dover abbandonare i locali.
All'ultimo piano si nota il caratteristico "sburto", popolarmente chiamato anche "jazéra" in quanto spesso usato come "frigorifero" per la conservazione del burro e altri generi deperibili, assolveva comunque diverse funzioni fra le quali, grazie al doppio telaio, proteggere dalla bora e offrire la possibilità di osservare la strada senza bagnarsi quando pioveva.

L'uso smodato di alcool era più frequente in coloro che esercitavano mestieri che li obbligavano a lunghe e frequenti attese, spesso trascorse nella bettola più vicina, come facchini, servi di piazza, vetturini, cocchieri... Questi erano pure impieghi che si svolgevano principalmente all'aperto e nei mesi invernali per combattere il freddo si iniziava sin dal mattino con un acquavite che "scalda le rece", seguita da altri bicchieri per contrastare la fatica, l'umido, in estate il caldo afoso, la noia e a volte la frustrazione.
A tarda notte erano ancora più evidenti gli effetti degli eccessi del bere con risse, schiamazzi, persone che ciondolavano lungo le strade, spesso cadendo vittima dei borseggiatori, o che in genere offrivano scene penose o volgari, questo nonostante la vigilanza delle guardie che facevano la ronda nelle ore più tarde.

Benché da sempre fossero noti alcuni disturbi legati all'abuso di vino e liquori, all'inizio del '900 il problema divenne un'emergenza e per arginare il fenomeno si formarono leghe e associazioni analcoliste che si occuparono di promuovere campagne per contrastare l'abuso dell'alcol e informare sui danni da questo provocati. Il Comune pensò anche di limitare il numero di licenze per i locali adibiti a vendita di alcolici, ma per i troppi interessi in ballo il progetto non venne mai attuato.

La medicina era lontana dal considerare e curare la dipendenza fisica e psicologica dall'alcol e di conseguenza anche i trattamenti erano inadeguati. Gli alcolizzati, ma anche i reduci di potenti sbronze che dessero qualche segno di squilibrio, venivano internati, solitamente per qualche giorno, nella "famosa" VIII divisione psichiatrica del Civico Ospedale, attuale Ospedale Maggiore (che venne formata nel 1884 dal settore B della III divisione medica), diretta dal dottor Luigi Canestrini [2], dove venivano ricoverati i malati mentali affetti da forme non acute; il reparto rimase attivo anche dopo l'apertura del Civico Frenocomio di San Giovanni, inaugurato il 4 novembre 1908 e mantenne le funzioni di primo accoglimento fino alla chiusura avvenuta nel 1924.
 
Per aprire una parentesi più allegra voglio ricordare che da questi ricoveri ebbe origine la canzone popolare "l'Ino [o Inno] dei mati", dove viene fatto riferimento al primario, che a quel tempo era proprio il succitato dott. Luigi Canestrini, un luminare della psichiatria molto noto e popolare a Trieste, anche per la sua umanità, e menzionato pure da Italo Svevo nella Coscienza di Zeno, in occasione di una meticolosa visita sostenuta per ottenere uno scherzoso certificato di sanità mentale da presentare al padre.

"E co capita el primario

el domanda come xe,

come xe.

Sior primario, stemo meio:

siam rimasti solo in tre!

Solo in tre!

E in zavate, capel de pàia,

la vestaglia a pindolòn,

finiremo 'sta marmaia

ne l'Otava Divisiòn!

Secession!

Sior primario, la saludo

perché 'l mal me xe passà,

xe passà,

ma se ciapo un'altra bala

la me vedi tornàr qua!

Tornàr qua

[Ritornello]"

In alcune versioni della canzone al termine "secession!" viene sostituito "sul pajon!", personalmente credo che il primo termine, che significa distacco-separazione, sia quello originale, in quanto il gruppo "de l'Otava Division" si sente distaccato dalla compagine sociale.


A distanza di anni per gli alcolisti non era cambiato molto, a conferma propongo un trafiletto apparso su un quotidiano della nostra città del 29 marzo 1928:
"Trieste è uno dei centri urbani in cui si beve di più anche se il vino è più caro rispetto ad altre città. Dalla questura sono stati censiti 119 alcolisti ... la piaga sociale richiede l'intervento non solo delle congregazioni di carità, ma anche della sanità in quanto la dipendenza da alcolici è ritenuta una malattia vera e propria".

Da ricordare che il primo club degli alcolisti in trattamento fu fondato a Trieste 1979, molta strada era stata fatta e molta era ancora da fare.



NOTE
[1] Adolfo Leghissa, 10 novembre 1875 - 18 ottobre 1957.

[2] Luigi Canestrini, primario dell'ottava divisione del Civico Ospedale, fu il primo direttore del Frenocomio inaugurato nel 1908, rimase in carica fino al 1926, anno della sua morte. Nacque a Rovereto nel 1854, si laureò a Graz e si specializzò in neuropsichiatria a Berlino.


Bibliografia
Trieste che passa (1884-1914) di Adolfo Leghissa.
Carte da legare - Archivi della psichiatria in Italia - Ospedale psichiatrico provinciale di Trieste.
Testo dell'Inno dei mati tratto da fabotrieste.blogspot.com
"Cenni storici sulla prassi psichiatrica triestina dal 1908 al 1970" di Donatella Barbina.
Trieste 1900-1999 Cent'anni di storia vol. III

martedì 31 agosto 2021

Mestieri di un tempo "Servo di piazza"

 

                                                                              

Nella vignetta pubblicitaria apparsa sulle "guide della città" e su alcune riviste cittadine, viene rappresentata piazza della Borsa animata da servi occupati in diverse mansioni.


In questo articolo troverete riportate diverse notizie tratte dai periodici umoristici di satira politica e sociale molto diffusi a fine ottocento, in quanto ritengo siano, più di altre fonti, lo specchio della vita cittadina del tempo; le voci popolari riportate dai cronisti suggeriscono un quadro genuino della quotidianità, dove si delineano episodi che vedono mestieri e rapporti umani intrecciarsi ed emergono i problemi, le difficoltà e la capacità di adattamento richiesta al servo di piazza in una città in continuo mutamento.


Servo de piazza
Questo mestiere nel passato alquanto diffuso fu indiscutibilmente longevo, grazie anche alla sua intrinseca capacità di adeguarsi alle esigenze del pubblico, i "servi" stazionavano nelle piazze e lungo le vie principali, dove si alternavano negozi di lusso e botteghe, posti indiscutibilmente strategici, ma anche prestabiliti, di modo che il cliente sapesse dove poterli reperire. Ma di cosa si occupavano i "servi di piazza"? Nel dettaglio lo vedremo più avanti, al momento si può anticipare che questi eseguivano le mansioni più svariate e a leggere l'elenco delle prestazioni offerte se ne può desumere che si trattava di un'attività che offriva un'occasione di impiego a manodopera poco specializzata, ma che necessitava di persone capaci di sviluppare diverse abilità.


Una bella immagine che vede un giovanissimo servo in postazione lungo il Canal Grande, in attesa di qualche cliente che necessiti dei suoi servizi.


L'Istituto Triestino dei Servi di Piazza
La prima impresa di questo genere della città fu "l'Istituto Triestino dei Servi di Piazza", con sede in via S. Giovanni n° 837 poi n° 7 (attuale via Imbriani) e che rimase in attività fino ai primissimi anni del '900. L'inaugurazione del 28 settembre 1863 fu annunciata da molti articoli apparsi su quotidiani e riviste, dove oltre ai servizi offerti venivano elencate le qualità del personale, il regolamento e le tariffe; al momento della sua apertura l'istituto contava 150 dipendenti.
Il direttore Rudolf (o Rodolfo) Mrosek aveva una grande esperienza nel settore, dopo aver aperto il primo istituto di servi di piazza nel 1861 a Monaco di Baviera, vantava di averne fondati, con buon esito, altri trenta in grandi città europee.




Competenze
Sicuramente uno dei servizi più apprezzati e sfruttati sarà stato quello con cui si garantiva un rapido recapito di missive e colli di ogni genere, dagli acquisti più voluminosi ai delicati fiori per la persona amata, ma, come anticipato, i compiti dei servi di piazza erano alquanto più vari e per una corretta valutazione di questo mestiere vale la pena analizzare come prima cosa un elenco di mansioni apparso nei trafiletti pubblicitari dell'Istituto, con l'obiettivo di fornire ai possibili clienti alcuni esempi di utilizzo del servizio e nel contempo illustrarne la versatilità.


Bagagli dei viaggiatori, valige, pacchi e pacchetti trasportati a mano o con l'aiuto del carretto.


"...consegna di messaggi, commissioni di lettere per espresso, recapito degli acquisti, invio merci ed effetti di ogni specie, effettuazione di servigi domestici e industriali, accettazione di servigi in qualità di conduttore o scorta, guida per forestieri, incasso cambiali, infermiere, trasporto ammalati, distributore di avvisi, affissioni..." o anche solo accompagnare le persone con l'ombrello nelle giornate di pioggia o con la lanterna alla sera lungo le strade illuminate dalla luce fioca dei pochi fanali a gas [1].
Anche per ricordare l'intensità dei fenomeni atmosferici che colpivano la città e i suoi dintorni, voglio menzionare un uragano che imperversò per ben quattro giorni a partire dalla notte di San Silvestro del 1864, le incessanti raffiche di bora provocarono molti incidenti e causarono contusi, feriti e morti; furono scoperchiati alcuni tetti, strappate delle tettoie, alcuni infissi vennero staccati dalle cerniere finendo sulla strada, anche diversi broom [2] furono vittime dei refoli.
Grazie a questo fatto estremo, degno di un articolo de "Il Diavoletto", veniamo a scoprire un nuovo ruolo dei servi (probabilmente sfruttato anche nelle più frequenti giornate di bora), che il cronista così descrive: "...spiegarono un'indefessa attività ed ebbero un bel da fare ad accompagnare le persone che abbisognavano di appoggio".



Una delle tante inserzioni con le quali il direttore offriva servizi sempre diversi, in questo caso un aiuto per un lavoro che nelle famiglie si ripeteva ogni anno in primavera e con i primi freddi. Tratto da "Il Grillo" giornale umoristico, letterario, artistico e teatrale del 1863.


Riguardo al fatto che i servi potessero fare da "guida per forastieri" riporto quanto scritto in un divertente e caustico articoletto, in cui l'autore afferma un po' sarcasticamente che i viaggiatori potranno così finalmente ricevere un po' di garbo e gentilezza, dal momento che i triestini sono rudi, scontrosi e si dimostrano poco disponibili ad aiutare o fornire informazioni, lasciando una spiacevole immagine della nostra bella città.

Altri invece i servizi che venivano proposti in abbonamento, dietro un corrispettivo da concordare preventivamente con l'Istituto: "Portare i pranzi dalle locande, l'acqua attinta alle fontane, aprire e chiudere magazzini, fare la spesa, pulire stanze, pavimenti, parchetti, scale".

All'occorrenza si avvalevano della loro opera anche al Comune, con delibere per servizi diversi, come poteva essere la distribuzione delle notifiche o l'allestimento della sala per le convocazioni del Consiglio della Città, pratica peraltro confermata dalle lamentele di alcuni cittadini che la ritenevano uno spreco di denari, in quanto le mansioni avrebbero potuto essere svolte dal personale già stipendiato dal Comune.

Va considerato che questi erano uomini che per lavoro si trovavano ad entrare in abitazioni ed uffici e a cui, come abbiamo visto, venivano assegnati ruoli che necessitavano di una certa responsabilità. Conscio di questo il direttore Mrosek assicurava che il personale veniva selezionato con cura, si trattava di uomini fidati, di buona morale, che lavoravano sotto la sorveglianza di ispettori e di un capo ispettore scelto fra i componenti del corpo dei pompieri, dal quale peraltro provenivano molti dei servi di piazza stessi.
A ulteriore testimonianza dell'irreprensibilità dei servi vi è pure il fatto che coloro che per diversi motivi non volevano recarsi personalmente al Monte di pietà delegavano un servo per le operazioni di pegno, rimessa o riscatto.


Il giovanissimo servo di piazza con la regolare uniforme vuole essere inquadrato nella foto della piazza San Giovanni, una zona centrale con molti negozi dove probabilmente stazionava in attesa di clienti.


Abbigliamento del personale
I servi di piazza vestivano l'uniforme fornita dall'istituto, questa era composta da una giacca lunga con le spalline formate da stringhe con scritto "P.S.T." (Pubblici Servizi Triestini), realizzata in tela per l'estate e di panno per i periodi più freddi, inizialmente di colore blu con collare e mostre verdi, negli anni seguenti vennero aperti altri istituti caratterizzati da colori diversi: rosso, azzurro, giallo, tinte che solitamente si limitavano alle mostrine e o al berretto; sul petto una targa metallica con il nome dell'Istituto e una targhetta di ottone con un numero ben visibile veniva posta sul berretto con visiera,[3], questo poteva essere di cuoio o tela cerata, infine una tasca nera di pelle fissata alla cintura era utile per riporre le marche e altri documenti od oggetti.
Inoltre il servo doveva essere in possesso di una carta di legittimazione (con "Nulla Osta" dell'i.r. Direzione di Polizia) e per aiutarsi usava spesso un carretto, che per essere ben distinguibile venne dipinto in rosso, divenendo assieme all'uniforme il tratto distintivo del mestiere, tanto da essere rappresentato nelle vignette pubblicitarie e citato anche da Scipio Slataper in un passo de "Il mio Carso" dove descrive scene di quotidianità della nostra città: "...un servo di piazza si fa avanti con il carretto rosso...".

Pochi mesi dopo l'apertura di questa attività si leggono diversi articoli di elogio per questo servizio tanto atteso e per la capacità dimostrata dalla direzione a organizzarsi in modo da soddisfare ogni esigenza del pubblico con nuove offerte a prezzi ridotti, fra i nuovi servizi c'era la possibilità di richiedere il personale in abito civile, in modo da poterlo impiegare in vario modo in occasione di feste. ("La Baba" giugno 1864)

Sempre a proposito di servi con ruoli "di rappresentanza" in cui l'aspetto fisico aveva la sua importanza, riporto un simpatico avviso pubblicato sul periodico "L'Arlecchino" del 18 marzo 1865, in cui con notevole anticipo si offre un servizio per il Carnevale dell'anno successivo:
"...aprirò un cancello per comodità dei papà e delle mamme che vogliono regalare dei fiori alle proprie figlie nei giorni di corso...disporrò di servi di ogni forma e statura che vestiranno la bautta che potrà essere di tela lucida, o di raso, o di seta...".
Il testo ci ricorda una romantica usanza che voleva che venissero offerti alle signorine dei profumati "bouquets" da sfoggiare nel "corso delle carrozze" [4]; con il timore di restarne sprovviste spesso le ragazze li comperavano da sole o venivano donati dai genitori, con il risultato di vedere carrozze ricolme di fragranti mazzolini.
 
La "carta di legittimazione" con il "Nulla Osta" dell'I.R. Direzione di Polizia, riporta il nome e la data di nascita del servo, l'impresa della quale era dipendente e il luogo in cui stazionava.
Collezione Iure Barac.


La novità del tariffario
L'istituzione di questo servizio fu una novità della quale si parlò molto, tra le altre cose andiamo a scoprire che fra i cittadini vi era la speranza che l'introduzione di un tariffario, come quello proposto dall'Istituto, ponesse fine alle speculazioni e in generale alla soggettività con cui le tariffe venivano calcolate fino a quel momento da chi si occupava di queste mansioni. Un esempio estremo di questo si aveva nelle giornate del 24 agosto e del 24 febbraio, date in cui la legge prevedeva si concludessero e rinnovassero i contratti di locazione [5] e quindi pure giornate di numerosi traslochi, che per essere portati a termine, a seconda delle possibilità economiche dei singoli inquilini, richiedevano l'opera di case di spedizioni o dei "carradori" (carrettieri), che non esitavano ad approfittarsi della gran richiesta concentrata in un singolo giorno per gonfiare i compensi pretesi. Mrosek non mancò ovviamente di offrire un qualificato servizio di traslochi, magnificando di possedere "carri a suste" (verosimilmente forniti di sospensioni con molle a balestra) realizzati "dietro un modello di Parigi, unico nella nostra città" e grazie ai quali si potevano trasportare oggetti fragili o delicati, come pianoforti, vetrami, cristalli e porcellane, senza arrecare danni e, prevedendo numerose richieste, con molti mesi di anticipo sulle scadenze sopraccitate invitava i clienti a prenotarsi per il trasloco (Il diavoletto 1863).


Un dettaglio dell'immagine di piazza della Borsa dove si vedono i servi di piazza impegnati nel delicato trasporto di un pianoforte.


I facchini
Questa concorrenza di ruolo e prezzi impattò anche sui facchini, con i quali però apparentemente si giunse a un accordo, in quanto nel periodico "La Baba" del dicembre 1863 viene riportata un'integrazione del regolamento dove si precisa che i servi di piazza devono attenersi alle loro mansioni senza pregiudicare il lavoro dei facchini. A ulteriore prova di questo accordo sulla concorrenza, evidentemente non gradito a tutti, riporto la risposta fornita dal direttore dei servi di piazza a quanto un anonimo, che si firma con l'evocativo nome di Grano d'orzo, aveva scritto alla redazione del giornale lamentandosi del fatto che i servi di piazza si erano rifiutati di eseguire la mansione da lui richiesta: "...siccome anche i facchini deggiono vivere, così i servi non possono assumere quelle incombenze che sono proprie dei facchini detti da sacco, come è appunto l'imballaggio delle merci".

Da rimarcare però che quanto riportato non riguardava tutte le categorie di facchini, difatti poco dopo, nel gennaio1864, usciva su "Il Diavoletto" un'ulteriore sollecitazione da parte di alcuni cittadini affinché i servi di piazza, che già si occupavano del trasporto bagagli dei viaggiatori per la compagnia di navigazione del Cavalier Giuseppe Tonello, venissero impiegati anche per le navi del Lloyd Austriaco, in modo da por fine ai prezzi arbitrari applicati dai facchini ("Il Diavoletto" 1864).
Pochi mesi dopo il Consiglio di Amministrazione del Lloyd Austriaco si accordava con l'Istituto affinché i servi di piazza sostituissero i facchini, impiegati fino ad allora, allo scopo di regolamentare il servizio e di assicurare ai viaggiatori: gentilezza, disponibilità, un rimborso per eventuali perdite o danneggiamenti dei bagagli, ma soprattutto un prezzo consono e uguale per tutti, punto ulteriormente garantito dall'apposizione di un tariffario in quattro lingue esposto sui piroscafi. Questo cambiamento creò ovviamente del malcontento fra i facchini, tanto che nei primi tempi del servizio, per evitare spiacevoli scontri all'approdo dei piroscafi, lungo le rive e sul molo San Carlo (Audace) vennero dislocate diverse guardie e, in alcuni casi, il commissario di polizia stesso. Nella speranza di limitare le dispute con i facchini, che avevano ottenuto il sostegno di molti cittadini e avendo in ogni caso necessità di nuova manodopera, l'Istituto Triestino dei Servi di Piazza, con una scelta diplomatica inserì nel proprio organico gran parte di coloro che a causa di questo accordo avevano perso il lavoro ("La Baba" maggio e giugno 1864).
Il Lloyd Austriaco mantenne questa convenzione fino alla cessazione dell'attività dell'Istituto Triestino dei Servi di Piazza, passando nel 1906, con le stesse condizioni, al "Consorzio Triestino Servi di Piazza" che aveva da poco aperto in via del Molin Piccolo 7 (attuale via Milano).

 


Un tempo ridevano così... quattro vignette dove si ironizza sul ruolo dei servi di piazza.


Orario e regolamento
L'orario di lavoro era molto pesante, quello invernale andava dalle 7 alle 19 e quello estivo dalle 6 alle 20. Per il riposo e per dedicarsi alla famiglia potevano beneficiare di due domeniche libere al mese, revocabili in caso di necessità. Il salario andava indicativamente dai 25 ai 30 fiorini mensili, a seconda delle mansioni.

Le norme che regolamentavano il lavoro e il tariffario, approvato dal Magistrato Civico, si trovavano esposte, in quattro lingue, nell'ufficio dell'istituto, ma anche pubblicate sulle guide e su qualche periodico.

Riporto alcuni punti tratti da la "Guida della città di Trieste" del 1889:
  • Alla fine del servizio le uniformi venivano lasciate in società.
  • Non potevano chiedere mance, né richiedere il compenso in modo diverso dal tempo impiegato, a esempio per peso o fragilità dei pacchi, o da quello previsto dalla tariffa.
  • Nelle occasioni in cui la loro opera si prolungasse per più giorni, gli accordi dovevano venir presi con le direzioni delle singole imprese.
  • I pagamenti venivano eseguiti al momento del ritiro della bolletta o marca che doveva essere trattenuta dal committente, questo meccanismo gli assicurava il diritto all'indennizzo per eventuali danni o ammanchi patiti, per un valore massimo di 500 fiorini, purché segnalati nelle successive 24 ore.

Uno dei tanti annunci pubblicati sui periodici dove i clienti vengono invitati a richiedere le marche.


Riguardo la "marca" devo aggiungere che era del colore che simboleggiava l'istituto, conteneva il numero del servo, l'importo, la data e l'indirizzo dell'ufficio e negli annunci pubblicati si trova con frequenza riportato l'invito ai clienti di ritirare "le marche", sia perché, come detto, erano la loro unica garanzia di rimborso, ma soprattutto per evitare frodi a discapito dell'istituto; da questo si desume che era pratica piuttosto diffusa concludere le trattative direttamente con il servo, ma questa inadempienza, come "la richiesta di compensi diversi da quelli previsti, prepotenze o mancanze verso il pubblico e insubordinazione verso i superiori" oltre a mettere a rischio l'impiego presso l'Istituto, venivano punite dall'I.R. Direzione di Polizia ai sensi dell'Ordinanza Imperiale del 20 aprile 1854 (Bollettino leggi dell'Impero N°9).


Le prime tariffe, piuttosto stabili per molti anni, conteggiavano i servizi in base al peso del carico da trasportare e alla distanza da percorrere. Il peso in questa immagine viene espresso in "funti", il funto di Vienna era un'antica unità di misura adottata a Trieste con l'Ordinanza dell'11 giugno 1758, dove i vecchi pesi e misure vennero sostituiti con quelli di Vienna.
1 funto uguale a 0,56 kg (dunque una libbra di Vienna) e i 30 funti sopra riportati corrispondono circa a 16,8 kg.
Tratto da "Guida della città di Trieste" del 1870.


Dal 1887 tutti gli istituti adottarono la "tariffa oraria" e i medesimi prezzi, mentre solo l'Impresa Triestina di "Espressi" ebbe tale modalità di compenso sin dalla sua apertura nel 1875.
Collezione Iure Barac.


La tariffa adottata nel 1904 e la convenzione stabilita dal 1864 fra il Lloyd austriaco e l'Istituto Triestino dei Servi di Piazza, denominati "mostre verdi".
Tratto da la "Guida della città di Trieste".


Tombola!
Una curiosità riguarda l'impiego dei servi di piazza per le tombole di beneficenza, in occasione delle quali un gigantesco tabellone veniva eretto tra le colonne del palazzo della Borsa. In un'edizione de "Il Diavoletto" data 1865 si legge che ben 26 servi si presentarono "con il costume tutto nuovo ed i berretti di pelle americana" e per emergere dall'imponente folla vennero fatti salire su delle robuste botti sistemate fra i tabelloni supplementari collocati lungo il Corso fino a piazza della Legna (attuale piazza Goldoni), questi come una catena umana si trasmettevano e nel contempo comunicavano al pubblico ad alta voce i numeri estratti, i triestini, con la solita ironia, definirono questo peculiare spettacolo: "la via Crucis della Fortuna".
Un'altra volta, per assumere un minor numero di lavoratori, venne sperimentato un sistema diverso, i servi partendo dal punto in cui il numero veniva estratto si facevano largo fra la folla muniti di bandierine, sino a raggiungere i tabelloni suppletivi, ma si creò un disastroso caos, alla fine la folla fischiò delusa e l'esperimento non venne ripetuto.
Nel 1867 il gioco venne trasferito in Corsia Stadion (via Battisti), ma a seguito di alcuni incidenti fu sospeso dal 1871 al 1879, da questa data si tenne nel vasto piazzale della Caserma Grande, qui venivano organizzate delle vere feste con chioschi e venditori ambulanti, nel maggio del 1901 ben 7000 persone parteciparono all'evento, ma proprio per questo motivo, alcuni numeri estratti, sempre replicati a gran voce dai servi, vennero equivocati, con conseguenti proteste del pubblico che sventolava amareggiato le cartellette (da "1901 a Trieste e nel mondo").
Negli anni seguenti il gioco venne trasferito principalmente all'Ippodromo di Montebello, ma non si può dimenticare l'edizione più spettacolare, denominata "Tombola sul Mare", tenuta con l'obiettivo di raccogliere fondi per la costruzione della Casa per marinai, il palco fu posto su una maona pavesata, circondata da altre imbarcazioni e la folla disposta sul molo San Carlo e lungo le rive, i numeri venivano segnalati con le bandiere del codice marittimo e ripetuti dai numerosi servi di piazza ("Trieste Cent'Anni di Storia" vol.I Licio Bossi - ‎Severino Baf.).

 
In molte foto d'epoca della città controllando con attenzione si possono notare i piccoli carri in sosta o, come in questo caso, il servo di piazza che si avvia per una consegna.


Condizione sociale
I servi lavoravano dalle 12 alle 14 ore al giorno per un salario alquanto misero, rimasto inalterato per quasi 10 anni, senza alcun sussidio in caso di malattia, privi di stabilità lavorativa e di tutele, nel passato avevano manifestato qualche lamentela rimasta inascoltata, ma nel 1872, causa il carovita e l'aumento delle pigioni, il malcontento era sfociato in vere e proprie proteste e scioperi, gli stessi problemi erano sentiti anche da altre categorie di lavoratori che proclamarono anch'essi delle giornate di sciopero, ma in modo autonomo, senza programmi precisi e senza appoggio di associazioni che potessero mediare le rivendicazioni, in quanto le poche esistenti [6] si occupavano di mutuo soccorso, cosicché i lavoratori nella maggior parte dei casi ottennero risposte intimidatorie e solo raramente dei miglioramenti, spesso concessi solo per tacitare le proteste. I servi di piazza con le loro basse mercedi non riuscivano a soddisfare i bisogni fondamentali e nonostante la modesta richiesta di portare la paga attuale dai 71 o 87 soldi al giorno, a seconda della categoria o dei servizi, a 1 fiorino, uguale per tutti, non riuscirono a trovare un accordo, tanto da sentirsi rispondere dal principale "chi no ghe comoda che el vadi via" e per rendere la risposta più efficace licenziò alcuni servi ("El Buleto Fojo Triestin" 11 agosto 1872 ), la miseria del periodo coinvolgeva larghi strati della popolazione e per il direttore non fu difficile sostituire il personale che era stato allontanato.

Alcuni servi, dopo il mancato accordo sui compensi e sull'orario di lavoro, decisero di costituirsi in società con divisa propria e una sede in via Canal Grande (via Cassa di Risparmio), molti cittadini si espressero a favore di questa iniziativa ritenendo che fossero dei bravi lavoratori e sperando che ottenessero il successo meritato. In poco tempo ai "Nuovi Servi" vennero concesse le autorizzazioni necessarie e il permesso di applicare la piastrina in ottone con inciso "N.S.". L'anno successivo cambiarono la denominazione in "Nuova impresa Triestina dei Servi di Piazza" e con questo nome continuarono l'attività per molti anni.


L'inserzione pubblicitaria apparsa sulla "Guida della città di Trieste" di qualche anno dopo.


Nuovi Istituti
In una città le cui infrastrutture stentavano a stare al passo con la sua espansione umana e commerciale, superati alcuni periodi di crisi, altri imprenditori videro l'opportunità di fondare nuovi istituti di servi di piazza e dopo più di dieci anni dall'esperimento di Mrosek, al 28 agosto 1875 erano attivi tre istituti. Da principio, temendo la concorrenza, ci furono pesanti sgarbi fra i servi veterani e i nuovi arrivati, i cittadini biasimarono questi atti vessatori e pregarono la direzione di intervenire per placare gli animi e invitare i dipendenti ad avere un comportamento corretto, pare che i servi si adattarono presto alla nuova situazione, anche perché probabilmente il lavoro non mancava visto che nel 1889 le imprese erano arrivate a cinque e tutte situate nella zona centrale della città:
  • "Istituto Triestino dei Servi di Piazza" - via S. Giovanni 3 (via Imbriani attivo dal 1863)
  • "Nuova Impresa Triestina" - via della Cassa 3 (primo tratto dell'attuale via Genova fino a piazza Ponterosso) e Canal Grande 11 (via Cassa di Risparmio), società attiva già dal 1872 con il nome di "Nuovi Servi" e che nel 1875 cambiò denominazione in "Nuova Impresa Triestina".
  • Impresa Triestina di "Espressi" - piazza Nuova 6 (piazza della Repubblica) con ingresso in via S. Caterina (attiva dal 1875).
  • Impresa Triestina "Fattorini" - via degli Artisti 4.
  • "Impresa Corrieri Triestini" - via San Lazzaro.

 
Le angurie venivano scaricate dalle imbarcazioni e vendute direttamente sulla banchina del Canal Grande, un servo di piazza probabilmente ha collaborato allo scarico ed ora è in attesa di qualche cliente che necessiti di aiuto per trasportare verso casa il pesante frutto estivo.
Collezione Giancarla Scubini.


Dopo il primo conflitto mondiale i servi di piazza continuarono il loro lavoro dedicandosi soprattutto allo scarico e trasporto bagagli per i viaggiatori in arrivo con i piroscafi e con la ferrovia, furono sempre un importante riferimento soprattutto per i turisti, tanto che nelle "Guide per viaggiatori" pubblicate nei diversi paesi d'Europa veniva consigliato di rivolgersi ai servi di piazza, suggerendo magari l'Istituto ritenuto più fidato o economico. Voglio ricordare: "Handbook of Dalmatia, Abbazia, Lussin Etc: „The Austrian Rivieraˮ di A. Hartleben del 1913, dove vengono indicate le tariffe e i servizi offerti e il "Commerce Reports" - United States Department of commerce del 1931, dove indicano che il personale de "Il Consorzio Triestino dei Servi di piazza" si occuperà dello scarico e del trasporto del bagaglio e le tariffe calcolate in peso e distanza si potranno trovare esposte anche nella Stazione Marittima.


Una rara insegna in legno dell'altezza di quasi 2 metri del "Consorzio Triestino Servi di Piazza", realizzata nei primi anni del '900 da Francesco Epron, pittore/tabellista.
Collezione privata.


Con il passare degli anni si venne a perdere la figura indispensabile del "tuttofare", così particolare e necessaria nel passato, uomini pronti ad ogni mansione e capaci, con un po' di fantasia, di risolvere qualsiasi necessità; le inserzioni dei servi di piazza non occupavano più le prime pagine delle guide turistiche e cittadine, mantennero lo storico servizio di gestione del deposito e trasporto bagagli, ottennero ancora qualche collaborazione con i negozi che, come prestazione aggiuntiva, offrivano la consegna della merce a domicilio, ma il mercato del lavoro stava cambiando, si richiedevano maggiori tutele del lavoratore, assicurazioni antinfortunistiche e venne persa l'antica denominazione di "servo di piazza", sostituita da altre che determinavano precise figure professionali.


Questi di seguito elencati sono essere gli ultimi istituti che trovo citati nelle "Guide della Città":
  • "Consorzio Triestino dei Servi di Piazza" via Cavana N°13 dalla "Guida Industriale Professionale e Commerciale", risulta ancora attivo nel 1935.
  • Nel 1950 era in attività la "Cooperativa Servi di piazza" con sede in stazione centrale - note tratte dalla "Piccola Guida per tutti" del medesimo anno.


Vorrei concludere ricordando questi versi tratti da "Fargnòcole" Rime in vernacolo Triestino di Giulio Piazza che si firmava "Macieta" (1899):










NOTE

[1] Il 1 novembre 1898 si ebbero i primi impianti elettrici che fornivano una luce intensa, ma per diversi anni questi non soppiantarono completamente i fanali a gas.

[2] Il termine "broom" deriva da "brougham", chiamata così dal nome dell'avvocato scozzese Henry Peter Brougham, I barone Brougham e Vaux (Cowgate, 19 settembre 1778 – Cannes, 7 maggio 1868), che progettò nel 1838 una carrozza chiusa trainata da un cavallo, con balestre e ruote ricoperte di gomma che la rendevano comoda e confortevole. I posti a sedere erano due, ma a volte erano aumentati a quattro, montati opposti.

[3] Questo tipo di copricapo usato spesso anche dalla gente comune aveva una visiera rigida e popolarmente era chiamato "ongia" (unghia) o "rasca".

[4] Questa sfilata esordì nel 1783 per iniziativa governatore Pompeo Brigido, fu immediatamente un successo tale da dare il nome di "Corso" a quella che era la Contrada Nuova o Grande. Il corteo era formato da eleganti carrozze che si alternavano a vetture pubbliche, giardiniere, gripize, tutte riccamente addobbate e carri allegorici, da questi, come dalla grande folla disposta lungo il percorso, si lanciavano fiori, coltivati nelle serre o realizzati nelle sartorie, "confetti" (inizialmente di zucchero con un seme di coriandolo al loro interno, in seguito più frequentemente di gesso), "cartoline" (dischetti di zucchero avvolti in carte colorate), i getti, che iniziavano con grazia, finivano con vere e proprie battaglie, di queste ne approfittavano soprattutto i ragazzi che prontamente raccoglievano i dolcetti da terra. Per non restare privi di "munizioni", chi ne aveva la possibilità, impiegava dei servi di piazza che velocemente provvedevano al rifornimento.

[5] Nel Verbale del Consiglio di città del 1862 si legge che l'Editto Governativo 18/11/1785 stabiliva che i contratti d'affitto annuali scadessero il 24 agosto. La "data fatale", come popolarmente veniva chiamata, era attesa con apprensione, tanto da dar origine ai detti "eser bruto come el 24 agosto" e "24 agosto bruto come el mostro". Con l'aumentare della popolazione, per evitare la gran confusione e soprattutto la difficoltà nella ricerca di appartamenti, con il dispaccio del 23 febbraio 1853 i contratti divennero semestrali, con il termine fissato il 24 febbraio e il 24 agosto e la notifica di sloggio doveva essere impartita con un preavviso di tre mesi. Queste condizioni erano riservate alle case d'abitazione di città e contrade suburbane, per le case coloniche e le campagne il contratto scadeva invece l’11 novembre ed erano necessari 6 mesi di preavviso per lo sloggio (verbali XVII seduta pubblica del Consiglio 8 aprile 1862).

[6] Le prime associazioni si costituirono nel 1844 - 1850, sostenendosi con elargizioni di benefattori privati e con il contributo dei soci, queste avevano unicamente fini mutualistici e non coinvolsero tutte le categorie di lavoratori, nel 1869 ci fu una svolta con la "Società Operaia Triestina" S.O.T. di velato spirito irredentista, che fu aperta a tutte le categorie di lavoratori, superando così il corporativismo delle precedenti società, si diedero come obiettivo pure l'istruzione degli operai e per questo vennero aperti dei corsi gratuiti per analfabeti e una biblioteca sociale, lo stesso anno usciva l'organo di stampa "l'Operaio", nonostante i programmi gli interventi furono ancora soprattutto di natura assistenziale e nel 1873 venne istituita una sezione femminile, nel corso del tempo arriveranno altre associazioni che contribuiranno alla formazione di una coscienza sociale nei lavoratori e intraprenderanno la lunga lotta per la difesa dei loro diritti fondamentali.





Bibliografia:
"Teatro dei mestieri" Elisabetta Rigotti
"Trieste Costumi e Mestieri" Bianca Maria Favetta
"Sessant'anni di vita italiana" di Giulio Cesari 1929
"Vecchia Trieste" Lorenzo Lorenzutti
"Trieste 1900-1999" vol I di Licio Bossi e Severino Baf.
"Edilizia popolare a Trieste" di Flavia Castro 1984
"Il Corriere di Trieste" 28 agosto 1875
"Il diavoletto" giugno 1866
"Il diavoletto" 27 agosto e 24 settembre 1863
"Il diavoletto" 1864
"La Baba" giornale umoristico 30 settembre 1863
"La Baba" maggio-giugno 1864
"La Baba" maggio 1865
"El Buleto fojo Triestin" 1872 di V. Gerolini
"El Bulo fojo scrito in dialeto triestin" 1872
"L'Arlecchino" 18 marzo 1865
"L'Alba" 17 agosto 1872
"Il Grillo giornale umoristico, letterario, artistico e teatrale" 19 luglio 1863 (vignette 11 ottobre 1863)
"L'Operaio" 1873
"L'Alba" giornale politico agosto 1872
"Verbali della XVII seduta pubblica del Consiglio" 8 aprile 1862
"Almanacco della città di Trieste"1867
"Guida della città di Trieste" anni:1865-1867-1870-1875-1878-1880-1887-1889-1899-1900-1904-1909-1915-1950-1963
"Guida Industriale Professionale e Commerciale" 1930
"Il 1901 a Trieste e nel mondo" di Corrado Ban 1971

mercoledì 30 dicembre 2020

San Rocco a Muggia, chiesa e origini del cantiere


La sola rappresentazione della prima chiesetta di San Rocco è data da questa tempera di autore sconosciuto, l'edificio sacro verrà demolito per la costruzione del bacino di carenaggio, sullo sfondo alcuni edifici del cantiere. Il disegno documenta il varo del bagno galleggiante Maria avvenuto 15 maggio 1858.
L'opera è custodita nel Museo Scaramangà. 
Foto tratta da "La Fabbrica Macchine di Sant'Andrea" di A. Seri.


La peste del 1630 e l'edificazione della chiesa
Muggia ebbe una storia molto travagliata, caratterizzata dall'avvicendamento di diverse dominazioni culminate con l'atto di dedizione a Venezia del 1420, l'economia era basata sulla pesca, l'agricoltura e soprattutto sul commercio del sale estratto dalle loro saline; fu pure colpita molte volte dal morbo della peste, ultima l'epidemia del 1630, nota per la precisa descrizione che ne fa il Manzoni nei Promessi Sposi.
Il morbo si diffuse rapidamente nel nord Italia raggiungendo a luglio Venezia, che per interessi commerciali in un primo tempo non volle ammettere l'epidemia ritardando le misure di difesa e i provvedimenti, proprio da qui, probabilmente tramite una galera adibita al commercio, la malattia approdò in Istria, dove colpì in forma gravissima soprattutto le località della costa, arrivando a Capodistria il 20 settembre 1630, con conseguenze devastanti a livello demografico. Con la consapevolezza che la vicina Muggia avrebbe potuto facilmente essere vittima del contagio, al fine di tutelare la salute dei sui sudditi l'Impero Austriaco proibì il commercio del sale con la cittadina, con ripercussioni disastrose per l'economia di quest'ultima.
Per arginare il dilagare dell'epidemia, attorno a Muggia era stato creato un cordone sanitario, ma tale Nicolò Cupituricchio, detto "Matana", eludendo la vigilanza si recò a Capodistria e poco dopo il suo rientro, il 14 luglio 1631 come risulta registrato nel "liber defunctorum", morì di peste nella sua vigna di Riostorto [1]; luogo scelto da quel momento per seppellite le prime vittime del morbo. Con l'aumentare degli ammalati vennero creati un lazzaretto e un cimitero in una zona isolata vicino al mare, in poco più di quattro mesi ci furono 245 morti su circa 1000 abitanti. Il governo di Venezia, per attenuare la sofferenza della comunità, l'8 agosto dello stesso anno inviò 500 ducati e un migliaio di biscotti [2], il mese successivo vennero inviati altri 1500 ducati e all'inizio di ottobre la Chiesa di Muggia venne esentata dal pagamento delle decime. Dopo poco più di quattro mesi finalmente l'epidemia si spense, l'ultimo decesso fu registrato il 20 novembre 1631.

                   
Nella stampa sono state rappresentate le saline, il duomo, il castello, in alto "Muggia Vecchia" e, sulla destra, vicino al mare la chiesetta di San Rocco. 
"Golfo di Muggia" acquaforte da "Città, fortezze, isole, e porti principali dell'Europa in pianta, et in elevatione, descritte, e publicate ad uso dell'Accademia Cosmografica degli Argonauti" dal Padre Maestro Coronelli 1697.
Tratto da Cultura Italia.


Finita la pestilenza, per rendere grazia al santo protettore degli appestati, nella zona che era stata adibita a lazzaretto venne costruita una chiesetta dedicata a San Rocco [3], il piccolo edificio sacro aveva tre altari in legno, la facciata sovrastata da un campaniletto a vela e un'abside poligonale.
La chiesa, che apparteneva alla confraternita di San Rocco, in seguito alla soppressione delle confraternite ordinata da Giuseppe II divenne di proprietà comunale.


In questo schizzo a china di Dario Alberi, ispirato alla tempera di ignoto prima immagine di questo articolo, si apprezzano i dettagli dell'abside poligonale e il campanile a vela come culmine della facciata.


Mappa del 1818 in cui si può vedere lungo la riva del mare l'area cimiteriale con la chiesetta di San Rocco. La zona, priva di edificazioni, presenta alcuni terreni coltivati.
Dettaglio della mappa di Muggia (distretto di Capodistria) - Catasto Franceschino -
Archivio di Stato Trieste.



Cantiere San Rocco
Con la volontà di ampliare l'attività della Fabbrica Macchine di Sant'Andrea, i fratelli Strudthoff, figli del fondatore Giorgio Simeone Strudthoff (1786-1847) [4], erano alla ricerca di terreni adatti all'attività cantieristica, destò il loro interesse il litorale muggesano ancora privo di insediamenti industriali, così da Sebastiano Frausin acquistarono un terreno agricolo dove venne realizzata una seconda fonderia (sita dove oggi si trova la caserma dei vigili del fuoco, nel rione ancora oggi denominato "fonderia"), che fu avviata circa nel 1846.


Lungo la strada che da Muggia conduce a rio Ospo (attuale via Trieste) si trovava lo squero impiantato da Giuseppe Tonello, noto come "Squero dei Cadetti" in quanto lo scalo era stato usato dall'I.R. Scuola di Marina per addestramento dei cadetti (futuro Cantiere Navale Felszegi), poco distante la fonderia costruita dai fratelli Strudthoff, ancora oggi il rione viene denominato "fonderia" e le vie portano il nome degli antichi mestieri a questa collegati, quali: Calafati, Fabbri, Calderai, Fonditori, Meccanici, Marangoni.
Dettaglio della mappa di Muggia del 1818, le variazioni di colore rosso sono state realizzate per aggiornamento delle proprietà nel 1873.
Catasto Franceschino - Archivio di Stato Trieste.


Il progetto principale era però la costruzione di un cantiere e per questo la scelta cadde su una vasta area semi abbandonata denominata San Rocco, dal nome dall'antica chiesetta lì edificata, nei cui dintorni si trovavano solo qualche casa di pescatori e alcuni casolari di campagna, abitati prevalentemente durante il periodo del raccolto.
L'arenile dell'ex lazzaretto fu ritenuto ideale, iniziarono immediatamente le trattative per l'acquisto, che si concluse nel 1850 con il modico esborso di 200 fiorini e la condizione di "rifondere e ricollocare entro tre mesi le campane della chiesa parrocchiale".
La strada che da Muggia conduce a San Rocco venne costruita solo nel 1860, proprio per poter accedere al cantiere, per cui per il trasporto delle persone e dei materiali necessari per l'impianto del cantiere, sia che provenissero da Muggia che da Sant'Andrea, veniva utilizzato il veliero Adelina, costruito per l'occasione impiegando 85 operai, i primi dipendenti del cantiere.

Iniziati i lavori, in breve tempo la chiesetta venne inglobata nel cantiere ancora in costruzione. Il quotidiano "Il Diavoletto" nel 1860 riporta che l'edificio venne restaurato e abbellito in chiave gotica a spese degli degli Strudthoff, dunque in questo periodo perdette il suo stile originario.


Dettaglio della mappa del Catasto Franceschino del 1818, il tracciato in colore rosso riporta l'aggiornamento delle costruzioni eseguito nel 1873, questo ci permette di apprezzare, tra le altre cose, i cambiamenti intervenuti per la costruzione del cantiere. Le frecce indicano la posizione della chiesetta seicentesca di San Rocco, demolita nel 1864 per la realizzazione del bacino di carenaggio, e la nuova chiesa dedicata al Santo edificata all'esterno del cantiere nello stesso anno.
Muggia distretto di Capodistria - Archivio di Stato Trieste.


Inizialmente l'attività del cantiere fu caratterizzata dalla costruzione di navi in legno, per questo furono sufficienti pochi magazzini, alcune tettoie per la custodia degli attrezzi e un deposito per il legname, ma era nelle intenzioni dei fratelli Strudthoff dotare il complesso di impianti e macchinari all'avanguardia, ampliare lo spazio con più vasti interramenti e nel contempo potenziare la Fabbrica di Sant'Andrea, ma per questo occorsero nuovi capitali e finanziatori, quali la ditta Reyer & Schlick, Edmondo Bauer e l'operatore Pasquale Revoltella, da questo accordo, redatto con atto notarile del 27 aprile 1857, nacque la società per azioni che prese il nome di "Stabilimento Tecnico Triestino", che comprendeva la Fabbrica e la fonderia di Sant'Andrea, la fonderia di Muggia e il non ancora completato il cantiere San Rocco.


La tela a olio ritrae Edoardo Strudthoff (1832-1885), opera di Raffaele Astolfi (Bologna, 1829-Trieste, 1900) di proprietà del Comune di Muggia, esposta nell'atrio del palazzo Municipale. 
Foto Margherita Tauceri.


Sotto la direzione del giovane Edoardo Strudthoff, che dimostrò notevoli doti imprenditoriali, iniziò la ristrutturazione degli scali mediante opere di consolidamento del fondo atte a renderli adeguati alla costruzione di navi di grande tonnellaggio, nel complesso ci vollero 8 anni di lavori per rendere il cantiere pienamente attivo e funzionale. Il primo importante varo, avvenuto 15 maggio 1858, fu piuttosto particolare, si trattò infatti di quello dello stabilimento balneare "Maria", l'elegante bagno galleggiante, mentre prendendo in considerazione unicamente le costruzioni navali, il primo fu un brigantino a palo da 250 tonnellate di portata, ultimato nel 1860 e venduto a un armatore dalmata.
L'anno successivo dall'I.R. Marina di guerra furono commissionate cinque cannoniere in legno, al varo delle ultime delle quali, la Dalmat e l'Hum, volle assistere l'Imperatore Francesco Giuseppe in persona, che giunse al cantiere il 29 maggio 1861.


L'impatto economico e sociale
Apro una parentesi sulle risorse muggesane, da tempi remoti il commercio del sale era alla base dell'economia cittadina e dopo la chiusura delle saline, avvenuta fra il 1827 e 29, il sostentamento era fornito principalmente dalla pesca, dall'agricoltura e dalla ripresa dell'attività estrattiva nelle cave di arenaria, le cui pietre dette "masegno" venivano esportate soprattutto a Trieste, che attraversava un momento di grande espansione urbanistica, e utilizzate per lastricare le strade, per la costruzione di edifici e moli, attività comunque non sufficienti a risolvere la pesante crisi economica di Muggia, che vide una fine proprio con le iniziative industriali di G. Tonello e degli Strudthoff, che impiegavano manodopera locale e formavano nuove figure professionali che percepivano uno stipendio spesso basso, ma garantito.


La villa della famiglia Strudthoff a San Rocco.
Foto collezione Antonio Paladini.


La abitazioni dei dipendenti e villa Strudthoff
Edoardo Strudthoff e lo Stabilimento Tecnico Triestino acquistarono gran parte dei fondi sulle colline circostanti al cantiere, si trattava di: boschi, terreni agricoli, pascoli e alcune aree edificabili dove vennero costruite le prime abitazioni per tecnici e dirigenti del cantiere e successivamente altre più numerose per la manovalanza.
Uno dei primi edifici, presente nelle mappe del 1873 (pc.178-P.T.274), si trova in strada per Fontanella 9, lo ricordo, perché rimane ancora presente nella memoria di molti muggesani come la "La scola del cantier San Rocco", l'edificio fu realizzato per ospitare tecnici e ingegneri e grazie al ricordo di qualche abitante del luogo veniamo a sapere che nel 1932 era ancora abitato dalla famiglia di un ingegnere impiegato nel cantiere; successivamente fu adattato a scuola elementare privata e rimase di proprietà del cantiere fino al 1969, quando venne ceduto al Comune che per alcuni anni lo mantenne come sede scolastica, per poi convertirlo in centro estivo; dopo l'apertura della scuola elementare di Zindis (1972-73) l'edificio fu dismesso e, nonostante siano stati proposti alcuni progetti di recupero, oggi si ritrova in stato di degrado.


(1) Villa di Edoardo Strudothoff con il vasto giardino, circondata da altre proprietà degli stessi Strudothff. (2) La nuova chiesa di San Rocco costruita nel 1864. (3) Costruzione con cortile e giardino, di proprietà dello Stabilimento Tecnico Triestino, sorta come abitazione di tecnici e ingegneri del cantiere poi adattata a edificio scolastico. (4) Due piccole cave di proprietà di E. Strudothoff.


Parlando invece delle proprietà personali di E.Strudthoff, queste arrivavano fino a Vanisella, con alcuni lotti nel territorio di Ciampore; fra boschi, pascoli e orti, c'erano anche diversi vigneti che producevano un ottimo vino, tanto da valergli la medaglia di bronzo alla grande "Mostra agricola industriale e di belle arti" [5] che si tenne a Trieste nel 1871.
La zona più panoramica era la collina che dominava il cantiere e dalla quale si godeva di una splendida vista del golfo, su questa, lungo contrada San Rocco (che più o meno ricalcava il percorso dell'attuale strada per la Fortezza), costruì la sua villa, che vediamo apparire nelle mappe del territorio già dal 1873; questa era un edificio a due piani, con piccole mansarde e un ampio terrazzo in legno che attraversava la facciata principale, mentre quella rivolta a sud era caratterizzata da una luminosa e ariosa vetrata e dall'ingresso, protetto da un pergolato con rampicanti che offriva riparo durante la stagione estiva, nella parte antistante la villa un ampio parco con una ricca vegetazione scendeva quasi fino alla strada. Alla morte di Edoardo Strudthoff la proprietà passò, come bene indiviso, ai figli: Augusto, Mario, Giulio e Bianca e poi ai nipoti.
Durante le incursioni aeree sul Cantiere, avvenute il 7 e il 20 febbraio 1945, per gli effetti dello spostamento d'aria provocato dalle bombe la villa subì il crollo dell'ala destra, l'edificio venne però riadattato con diverse modifiche e continuò a essere abitato.
Nel corso degli anni le vaste proprietà furono suddivise, le particelle catastali frazionate, scorporate dai corpi tavolari e vendute, sui pendii collinari vennero costruite numerose villette e case rurali.
La parte ancora esistente della villa, in stato di abbandono, è poco riconoscibile, ma si trova in strada per la Fortezza n°12, nella parte alta della facciata ha resistito al tempo una nicchia protetta da un vetro, che ospita due statuette sacre, poste forse dopo la seconda guerra a ricordo dei bombardamenti che lesionarono, ma non colpirono mai direttamente la villa (edificio pc 139/2 P.T 275 - PT 409).


In strada per la Fortezza n°12 quello che resta della Villa Strudthoff, la parte sinistra venne modificata in seguito al crollo causato dai bombardamenti, manca l'ala destra, demolita forse per permettere la costruzione della nuova casa che vediamo addossata, in alto nascosta dalle fronde la nicchia con le immagini sacre.
Foto M. Tauceri.


Nel timpano rivestito con tavole di legno si vede la nicchia chiusa da un vetro che protegge le immagini sacre, si presume sia stata posta dopo il secondo conflitto come segno di ringraziamento per aver protetto la villa dai bombardamenti.
Foto M. Tauceri.



(1) Cantiere San Rocco, la carta riporta il nome in tedesco "Werfte Strudthoff". (2) Bacino di carenaggio. (3) "Lo Squero dei Cadetti", indicato con il nome tedesco di K.K. Werfte. (4) "Filiale dello Stabilimento Tecnico", cioè la fonderia degli Strudthoff. (5) Batteria San Rocco. (6) Batteria in località Zindis. (7) Werk St. Michele, cioè la batteria fortificata posta sul monte. La batteria del Forte Olmi, più a sinistra, non risulta coperta da questa mappa.
Dettaglio della carta topografica del Comune di Muggia posteriore al 1846 - tratta dal libro da "La Fabbrica Macchine di Sant'Andrea" di A. Seri.


Fortificazioni
A difesa del cantiere navale di San Rocco il Comando Militare Austriaco progettò un sistema difensivo costituito da quattro fortezze, realizzate fra il 1858 e il 1864 su progetto del Tenente Colonnello Karl Moering (1810-1870)[6], il direttore dei lavori fu l'udinese Culotti in collaborazione con Pietro Rizzi e gli operai furono reclutati fra la manodopera muggesana. La batteria n1 fu sistemata sulla collina prospiciente il cantiere San Rocco, lungo l'attuale strada per la Fortezza, oggi rimane visibile una modesta parte dell'edificio nascosta fra le case; la n 2 era in località Zindis, lungo l'attuale strada per Chiampore, di cui si è salvato l'edificio principale, adibito a ristorante; la n 3 era posta sul monte San Michele - Sv Mihel, vista la posizione arretrata è probabile che sia stata costruita a protezione delle altre batterie, di questa oggi rimangono soltanto dei resti murari. Alle tre batterie si aggiungeva il Forte Olmi [7] in prossimità di punta Olmi o punta Ronchi-Ronk-Ronco [8], che rappresentava uno dei punti di forza di tutto il sistema difensivo di Trieste e di cui si sono mantenuti i due piloni laterali del ponte levatoio.



Il bacino di carenaggio
Affinché la società potesse avere i maggiori e costanti introiti offerti dalla manutenzione navale, venne decisa la costruzione di un grande bacino di carenaggio, il posto ideale era il terreno contiguo al Cantiere San Rocco occupato dall'antica chiesetta, questo fondo di proprietà dei fratelli Don Giovanni Maria e Francesco Derossi, con lungimiranza era stato acquistato per 25 fiorini il 3 ottobre 1861 dal barone P. Revoltella per conto dello Stabilimento Tecnico Triestino, con il vincolo contrattuale: "...di mantenere, conservare ed abbellire la indicata chiesa di S. Rocco, per conto, nome ed esclusivo uso della chiesa stessa."
Per la realizzazione del progetto era quindi necessario ottenere l'autorizzazione a trasferire la chiesa in altro sito, a questo riguardo Edoardo Strudthoff il 22 marzo 1864 avviò le trattative con la Rappresentanza comunale di Muggia e l'Ufficio Parrocchiale, illustrando i vantaggi economici che sarebbero derivati alla cittadina da questo ampliamento e non mancando di segnalare che la chiesetta era ubicata in prossimità del molo dove si svolgevano le operazioni di carico e scarico, e il frastuono dell'attività cantieristica impediva il necessario raccoglimento dei devoti, concluse assicurando che si sarebbe impegnato a riedificarla in un terreno di loro proprietà con un sagrato sufficiente ad accogliere i fedeli anche nei giorni di più grande affluenza.


La chiesa di San Rocco addobbata per qualche festività, forse l'annessione di Muggia all'Italia avvenuta il 24 aprile 1921; nel piazzale i ragazzi con la divisa del ricreatorio del Cantiere San Rocco S.A.
Foto collezione Sergio Martincich.


La chiesa di San Rocco costruita dai fratelli Strudthoff dopo la demolizione della chiesetta originale, nella facciata si notano le finestre e l'ingresso ad arco acuto, in alto un piccolo rosone, due campaniletti delimitano la facciata.
Foto collezione A. Seri da "La Fabbrica Macchine di Sant'Andrea".


Riedificazione della chiesa San Rocco
Avuta l'approvazione dell'Ordinariato Vescovile di Trieste e Capodistria, il 2 maggio il consiglio presieduto dal podestà Nicolò Frausin accordò alla Società l'autorizzazione alla demolizione, rinunciando anche alla proprietà della strada che conduceva alla chiesa, in cambio di una cifra che potesse essere impiegata per l'erezione di un nuovo Altar Maggiore per la chiesa parrocchiale o il Duomo dedicato ai Santi Giovanni e Paolo. Il Comune accondiscese alle richieste, consapevole che la realizzazione del bacino di carenaggio avrebbe portato nuove occupazioni e nuove opportunità per i muggesani (risollevando l'economia della cittadina, ancora in crisi dopo la soppressione delle saline iniziata nell'ottobre del 1827); il 21 maggio 1864 si stipulò un contratto fra la Parrocchia, il Comune di Muggia e lo Stabilimento Tecnico Triestino, con l'impegno che quest'ultimo assumesse a suo carico la conservazione della nuova chiesa ed esercitasse: "il perpetuo diritto di patronato", senza vantare diritto di proprietà e con l'indicazione che: "...la nuova chiesa dovrà essere costruita dietro lo stesso stile e nelle stesse dimensioni, come quella da demolirsi."
Pare comunque che il consenso non fosse plenario, in quanto I. Vascotto (Op.cit.) riferisce, che in calce al contratto venne riportato che: "il Camerlengo Signor Francesco Pozzo si rifiuta di apporre la propria firma", mentre sono presenti quelle del Parroco e di un altro Camerlengo.
La nuova chiesa venne costruita in un posto diverso da quello proposto dagli Strudthoff, questo particolare viene reso noto da una lettera (I. Vascotto Op.cit.) inviata l'8/5/1864 da don Mecchia all'Ordinariato Vescovile, dove precisa che di concerto con la Deputazione Comunale avevano indicato un posto ritenuto più adatto.
L'edificio fu realizzato in tempi brevi e con dimensioni quasi doppie (m.20,6 per m.10) rispetto alla chiesetta precedente, venne adottato lo stile neogotico, come era d'uso a quei tempi, con finestre ad arco acuto chiuse da vetrate colorate, due campaniletti ai lati della semplice facciata a capanna e un oculo centrale, tre gradini conducevano all'ingresso sopra al quale venne apposta una lastra con un'iscrizione, ormai poco visibile, che riassume la storia dell'antica chiesetta.
Prospiciente all'edificio sacro venne realizzato, come promesso, un sagrato che avrebbe potuto ospitare pure la piccola sagra che si teneva il 16 agosto, ricorrenza di San Rocco.


Dedicata/ a S. Rocco/ dai pii fondatori di Muggia/ per grazie ottenute/ nella terribile peste del MDCXXVI/ dall'antico suo sito traslocata /ricostruita ampliata /per cura /dello Stabilimento Tecnico Triestino /nel MDCCCLXIV-- (1864)
Da rilevare che l'iscrizione riporta erroneamente la data 1626, mentre l'epidemia fu il 1631, sembra probabile che lo scalpellino nel copiare la data abbia interpretato la X con una V.
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Un alto muro separava il cantiere San Rocco dalla strada, a destra la chiesa e la piccola costruzione che porta l'indicazione "Osteria al Giardinetto", una delle trattorie che offrivano momenti di ristoro e di baldoria, ma che erano pure luoghi d'incontro e di battaglie sindacali.
Foto collezione Sergio Martincich.


Particolare inferiore della pala del 1864, raffigurante la nuova chiesa e l'intenso lavoro del cantiere.
Foto tratta da "Le chiese di Trieste" di G. Cuscito.


“Il Diavoletto” del 7 aprile 1865 nello spazio dedicato alle "Belle Arti" commenta la pala da destinare all'altare della chiesa da poco riedificata, commissionata dagli Strudthoff al pittore Raffaele Astolfi (Bologna 1829 - Trieste 1900), scrivendo che l'opera raffigurava l'Assunzione di Maria al cielo, con ai piedi della Madonna la nuova chiesa e il cantiere, viene decantata inoltre la finezza dell'intaglio dei capitelli in legno da porre sulle colonne dell'altare, realizzati dai maestri ebanisti dello Stabilimento Tecnico Triestino.
G. Cuscito nel suo libro "Le chiese di Trieste" scrive che la pala è andata perduta e intorno al 1960 furono dispersi i tre altari lignei e la suppellettile liturgica ottocentesca.


L'Arciduca
Ancora una nota, che ci fa capire quanto fosse amata la chiesetta di San Rocco, riguarda l'Arciduca Ludovico (Luigi) Salvatore d'Asburgo Lorena (1847-1915), figlio dell'ultimo granduca Leopoldo II di Toscana (1797-1870) e Maria Antonietta di Borbone (1814-1898); uomo di vasta cultura, si occupava di tutti i rami dello scibile, in possesso del brevetto di capitano amava navigare e con i suoi yacht girò il mondo. Nel 1878 acquistò a Zindis una dimora con annesso un vasto podere, popolarmente conosciuta come "villa del Principe", nella tenuta, che arrivava fino al mare, comprendeva la spiaggia tra punta Ronco e il cantiere S. Rocco, dove era ormeggiato il suo panfilo "Nixe", fece erigere una cappella e altri edifici rustici, ma amava comunque frequentare la chiesa di San Rocco e gli abitanti del luogo ricordano che anche quando si ammalò, colpito da una forma progressiva di elefantiasi, veniva lì trasportato con una sedia per poter assistere alla messa.
Tra le opere di restauro e riutilizzazione vale la pena menzionare quella dell'ex batteria di difesa costiera n2, da cui fu ricavato uno stallaggio, che molti anni dopo divenne la "Trattoria al Belvedere" e dopo il 1980 il ristorante albergo "All'Arciduca", oggi chiuso.





Nel piazzale antistante la chiesa San Rocco l'edicola originale che ospitava l'immagine della Madonna, in una foto del 1960.
Foto tratta dalla rivista "Borgolauro" n° 59/60.


La nuova edicola ricostruita dopo lo spostamento del muro dovuto al restauro dell'edificio retrostante.
Foto M.Tauceri.


Ultimo intervento di restauro
All'inizio del muro di recinzione che divide la piazzola e la chiesa dalle proprietà circostanti, negli anni '50 venne realizzata una nicchia decorata con pietre di arenaria che ospitò un'immagine della Madonna, successivamente, in occasione di una ristrutturazione dell'edificio retrostante, venne modificato il percorso del muro, la nicchia fu spostata e ricostruita con dimensioni ridotte, qui rimase trascurata e sommersa dalla vegetazione fino alla ristrutturazione del 2011, in quell'occasione fu risistemata e pulita e la Madonna originale fu sostituita da una nuova immagine più piccola.
Quella del 2011 fu l'ultima importante opera di restauro della chiesa, estesa agli esterni, agli interni e al piazzale, in quest'occasione venne aumentata l'altezza del presbiterio, grazie all'eliminazione di una soffitta, e furono creati due matronei sulle pareti ai lati dell'altare.
Ad oggi (limitazioni relative all'attuale periodo emergenziale a parte), vista la mancanza dell'impianto di riscaldamento, la messa viene celebrata al sabato soltanto durante la bella stagione, ma la chiesa viene comunque aperta tutti i giorni per accogliere visitatori e fedeli.
Offrendo inoltre l'edificio sacro una buona acustica vi si esibiscono sovente diversi gruppi strumentali e vocali.




L'interno si presenta a navata unica con l'arco trionfale che conduce al presbiterio. La copertura è a falde inclinate con una travatura in legno e tavelle in cotto.
                           

Le finestre ad arco acuto con vetrate delicatamente colorate illuminano l'interno, a sinistra la statua di San Rocco.
                              
                                                            
In una nicchia rivestita con tessere di mosaico d'oro è collocata la statua di San Rocco, nato a Montpellier tra il 1345 e il 1350, morto a Voghera tra il 1376 e il 1379, in una notte tra il 15 e il 16 agosto.


Questo dipinto che rappresenta San Rocco, oggi custodito nell'ufficio parrocchiale, si presume risalga agli inizi del XVII secolo e pare sia la sola opera che ci sia pervenuta della prima chiesa di San Rocco demolita nel 1864.



Il grande bacino di carenaggio ormai completato con le guide per la sistemazione della barca-porta (paratia a tenuta stagna), sulla sinistra al di là della strada si vede la nuova chiesa di San Rocco.
Foto Civici Musei di Storia e Arte.


Riprendendo la storia del cantiere dopo la realizzazione del bacino di Carenaggio
Come progettato, dopo la demolizione della chiesetta nel 1870 venne concluso il grande bacino a secco in arenaria (dry-dock) della lunghezza 114 m per 20 m e profondo 8 m (Teobaldo Saffaro) (Nel 1894 venne portato agli attuali 122,15 metri), tale fu l'importanza dell'avvenimento che il 19 marzo 1869 l'Imperatore Francesco Giuseppe volle visitare il cantiere, onorando per la seconda volta i fratelli Strudthoff con la sua presenza. Ci furono grandi festeggiamenti, all'ingresso venne innalzato un arco di trionfo ricoperto d'edera e la strada venne adornata con fiori e fronde. In questa occasione l'Imperatore conferì a Guglielmo Strudthoff l'ordine della Corona ferrea di 3° classe con esenzione delle tasse e a Edoardo Strudthoff la croce di cavaliere dell'ordine di Francesco Giuseppe.

A seguito di questa abbiamo notizia di una terza visita, il 3 aprile 1875 l'Imperatore, accompagnato dai fratelli arciduchi Ludovico Vittore e Carlo Ludovico, si recò infatti al Cantiere in occasione della corazzatura di due navi, operazione possibile grazie alla costruzione nel 1872 dell' "Officina corazze".

Nel 1869 ci fu un'ulteriore evoluzione dello S.T.T., il capitale venne portato a 1.500.000 di fiorini, gli Strudothoff persero la maggioranza, ma ebbero la possibilità di accettare commesse più importanti, il cantiere ammodernato e reso atto alla costruzione di navi in ferro diventò uno dei bacini di raddobbo più attrezzati del mediterraneo.
Il cantiere che aveva iniziato nel 1860 con 100 operai, ebbe un costante sviluppo arrivando dopo 10 anni a 1000 operai, il lavoro comunque subiva delle oscillazioni in base alle commissioni, nel 1880 vennero impiegati solo 500 operai, mentre nel 1895, periodo di massimo splendore, si arrivò a 1400; questi provenivano prima da Muggia e d'intorni, ma poi anche dall'Istria, per cui si dovette provvedere all'edificazione di nuovi alloggi per le maestranze in prossimità dello stabilimento.

Edoardo rimase alla direzione del cantiere fino a novembre 1885, data della sua morte, sarà sostituito da Teodoro Schunk dal 1886 al 1891, Teodoro Albrecht 1891-1899, Giuseppe Kellner 1899-1906.

L'evoluzione nelle costruzioni navali permise la realizzazione di navi di dimensioni e stazza sempre maggiori e le spese per l'adeguamento del Cantiere San Rocco si rivelarono molto alte, per cui nel 1896 lo S.T.T. decise per l'acquisto del cantiere San Marco, che pur necessitando di opere di ammodernamento, vista l'inattività di più di vent'anni, offriva il vantaggio di un'area maggiore e di una posizione più favorevole, sia per la vicinanza alla Fabbrica Macchine di Sant'Andrea che per la possibilità di un allacciamento ferroviario; qui venne concentrata l'attività di costruzione navale, mentre San Rocco diventò un cantiere sussidiario, destinato alla manutenzione e il raddobbo delle navi. Per prevenire una crisi economica a Muggia, e poter usufruire di una manodopera già specializzata, mille operai vennero trasferiti al cantiere San Marco e per lo spostamento giornaliero dei lavoranti vennero utilizzati anche i vaporini della linea privata dello S.T.T., istituita nel 1867 con l'obiettivo di iniziare una nuova attività per il trasporto passeggeri, ma che dopo il 1885 fu dedicata al solo trasporto di lavoranti e materiali.


La sezione maschile del ricreatorio del Cantiere San Rocco S.A. I ragazzi indossano le divise con lo scudetto cucito sul petto. Il ricreatorio sorse come struttura parascolastica con l'intento di intrattenere i figli dei lavoratori del cantiere con lavori manuali, giochi, esercizi ginnici, coadiuvati da educatori e maestri.
Foto collezione Sergio Martincich. 


Verso il 1908 il cantiere muggesano ricevette un nuovo impulso consolidato da un ulteriore aumento di capitale, scorporato dallo Stabilimento Tecnico Triestino assunse la ragione sociale di Cantiere San Rocco S.A., con capitale sociale 5 milioni di corone, rammodernato con nuovi scali e officine, riprese l'attività costruttiva delle navi mercantili.
Gli imprenditori si dedicarono pure a qualche iniziativa di tipo sociale, quale l'organizzazione di una squadra di vigili del fuoco, la fondazione o di una banda, l'edificazione di altre case per gli operai e come supporto alle famiglie istituirono un ricreatorio per i figli degli operai in un edificio sito in via della Fontanella 9, che dopo il 1932 fu adibito a scuola elementare.

Nel 1930 il Cantiere San Rocco S.A. venne assorbito dai Cantieri Riuniti dell'Adriatico (C.R.D.A.) e utilizzato solo per riparazioni, lo storico cantiere il 21 dicembre 1972 cedette gli scali alla Micoperi di Milano, riducendo l'area allo scalo d'alaggio e al bacino di carenaggio, l'11 novembre 1981 cessò l'attività e il 26 febbraio 1982 le aree rimaste vennero cedute alla Marina Muja che aveva in progetto la creazione un villaggio turistico residenziale dotato di un porto, aree verdi e zone di balneazione.


La strada provinciale 14 divide la chiesa di San Rocco e il porto di San Rocco Marina Resort con il complesso turistico residenziale.



Note
[1]
Nome riportato da Giordano Pontini nel libro "Muggia attraverso le sue chiese".

[2]
Sorta di pane utilizzato nella Repubblica di Venezia, realizzato con frumento di seconda scelta, veniva cotto due volte e, se mantenuto asciutto, poteva conservarsi fino a due anni. Veniva utilizzato soprattutto come sostentamento delle truppe e dei marinai.
A Venezia aveva un ruolo economico tale da far parte delle riserve alimentari e a seconda della situazione economica il governo stabiliva la quantità di biscotto da produrre e il frumento necessario.

[3]
Il Santo invocato nei periodi di grandi epidemie viene rappresentato con l'abito del pellegrino, bastone, mantello, cappello, borraccia, conchiglia e spesso accompagnato da un cane.
Nato a Montpellier fra il 1345 e il 1350, da genitori benestanti, cristiani dediti a opere di carità, dalla nascita lo contraddistingue una croce vermiglia sul petto. Rimasto orfano in giovane età vendette tutti i suoi beni e fece voto di recarsi a Roma. Arrivato in Italia, nel corso delle epidemie di peste andò a soccorrerne i contagiati, nel luglio 1367 arrivò ad Acquapendente (Viterbo), dove si offrì di prestare servizio nel locale ospedale, invocando la Trinità di Dio operò miracolose guarigioni.
Rocco arrivò a Roma fra il 1367 e l’inizio del 1368, qui avvenne il miracolo più famoso: la guarigione di un cardinale e questi lo presentò al pontefice; per il pellegrino l’incontro con il Papa fu il momento culminante del soggiorno romano.
Partì da Roma tra il 1370 ed il 1371, passò per diverse città, ma a Piacenza mentre assisteva gli ammalati venne contagiato, si ritirò in una grotta lungo il fiume Trebbia (tuttora esistente e trasformata in luogo di culto), dove un cane lo sfamò portandogli ogni giorno un tozzo di pane. Riuscì a guarire ed a continuare la sua opera di assistenza. Grazie alle guarigioni il suo nome divenne noto in tutto il paese. Mentre stava tornando a casa, per le complicate vicende politiche del tempo, Rocco venne arrestato come persona sospetta e condotto a Voghera, per adempiere a un voto non volle rivelare il suo nome affermando soltanto di essere “un umile servitore di Gesù Cristo”. Trascorse in prigione cinque anni, il verificarsi di alcuni eventi prodigiosi indusse i presenti ad avvisare il Governatore, ma Rocco morì la notte in cui fu decisa la sua liberazione, era il 16 agosto di un anno compreso tra il 1376 e il 1379. Prima di spirare il Santo aveva ottenuto da Dio il dono di diventare l’intercessore di tutti i malati di peste che avessero invocato il suo nome. Dal particolare della croce vermiglia sul petto venne riconosciuto probabilmente dall'anziana madre del Governatore.
Rocco di Montpellier fu sepolto a Voghera con tutti gli onori.
Il Concilio di Costanza nel 1414 lo santificò a seguito del miracolo con cui liberò la città dall'epidemia di peste ivi propagatasi durante i lavori conciliari.

[4]
Il giovane capitano di lungo corso Giorgio Simeone Strudthoff (1786-1847) nativo di Brema, nel 1815 dopo essere sbarcato dalla nave "Psiche" nella nostra città, prese alloggio nella casa di proprietà di Giacomo Manzioli, costruttore di strumenti ottici nautici, e della sorella Maria; forse attirato dalle opportunità che poteva offrire Trieste o dall'amore per Maria Manzioli, decise di fermarsi e con l'aiuto finanziario di amici iniziare un'attività come provveditore marittimo. Con Giacomo nacque un'importante collaborazione nel campo degli strumenti per la navigazione, ma oltre a questo si impegnò in molteplici settori in campo navale. Il 16 settembre 1816 sposò Maria Manzioli (1799-1858) e divenne cognato di Giuseppe Angeli, proprietario della nota corderia, la sua innata capacità imprenditoriale lo portò a sfruttare le opportunità del mercato e nel 1826 lo indusse ad avviare lui stesso una corderia, riuscendo però a ottenere soltanto permessi temporanei per l'occupazione del suolo. Dal matrimonio con Maria nacquero: Guglielmo (Wilhelm-Simon) 19 gennaio 1817 - ?, Giorgio (George Joseph) 1822 - 1888, Antonio (Karl Anton) 1824 - 1857, Augusto 1827 - 1892, Edoardo (Johann Eduard) 1832 - 1885 e Costanza, della quale non si reperiscono notizie. [A. Seri]
Con l'intenzione di trasferire e ampliare la fabbrica di strumenti nautici ottici e matematici che possedeva con il cognato Giacomo, acquistò dall'avvocato Giovanni Corrado Platner, lungo la strada di Sant'Andrea, accanto all'omonima chiesetta, un vasto appezzamento di terreno con una casa dominicale del valore di 10.000 fiorini, denaro che riuscì a raccogliere con la vendita dei suoi beni e grazie a prestiti privati e bancari; il contratto fu stipulato 17 febbraio 1835, immediatamente vennero intraprese le opere di ristrutturazione dell'edificio, che fu ampliato e adibito a opificio e abitazione.
Dopo la morte di Giacomo Manzioli, avvenuta nel 1839, la produzione di strumenti ottici e il negozio divennero di sua sola proprietà e decise di impegnarsi nel settore siderurgico, un campo nel quale non aveva esperienza, ma che avrebbe potuto offrire grandi possibilità, a tale scopo la fabbrica venne ampliata con la costruzione di tre fabbricati, uno dei quali adibito a fonderia.
Avvalendosi di fonditori esperti iniziò con la produzione di stufe, macchine agricole e macchinari per la produzione delle cose più diverse, ma anche quando la fonderia fu ben avviata continuò ad accettare pure le commesse più semplici, come gavitelli, boe, catene.
Per imparare le tecniche di fusione dei metalli e la fabbricazione delle macchine a vapore Guglielmo, il figlio maggiore, venne inviato in Inghilterra, al ritorno riuscì a mettere a frutto l'esperienza acquisita ottenendo l'incarico di direttore della fonderia, che negli anni si svilupperà grazie all'introduzione di macchinari tali da poter accettare commissioni più importanti.
Data la difficoltà a pronunciare un cognome così complesso i dipendenti lo chiamarono "Sior Strudolf", nome che venne esteso ai suoi eredi e piacque tanto da diventare di uso corrente anche per indicare la Fabbrica Macchine.
Il 10 marzo 1847 si concluse l'intensa vita di G. Strudthoff, la proprietà, che comprendeva anche il negozio si strumenti ottici e le attività alle quali si era dedicato fin dall'inizio e nonostante il successo non aveva mai voluto abbandonare, passò ai figli Guglielmo, Giorgio, Antonio, ancora minori Augusto, Costanza ed Edoardo, i quali avevano affiancato fin da giovanissimi il padre nell'attività, acquisendo competenze e l'abilità necessaria al lavoro di squadra.

[5]
Alla stessa esposizione partecipò anche lo S.T.T. con modelli, disegni e fotografie di una macchina a vapore, di un pontone gru di 25 tonnellate e del ponte girevole noto con la denominazione "ponte verde", realizzato nel 1858 a Trieste sul Canale Grande.
La mostra si tenne nell'area al tempo sgombra di case, di fronte al Giardino Pubblico Muzio de Tommasini con l'ingresso sulla strada, allora denominata, carrozzabile del Boschetto (via Giulia).

[6]
Karl Moering o Möring (19 maggio 1810 - 26 dicembre 1870). Storico, letterato e poeta, studiò presso l'Accademia di Ingegneria di Vienna, nel 1829 entrò nel Genio Militare, dal 1846 si dedicò anche alla carriera politica. Nel 1848 giunse per la prima volta a Trieste e dopo due anni entrò nella Marina Militare. Nel 1849 venne nominato Geniedirektor (Direttore del Genio militare) di Trieste. Negli anni a seguire sviluppò un piano difensivo della città piuttosto articolato, che la proteggeva sia in caso di un attacco dal mare, con la costruzione di fortezze e batterie, che dall'interno con torri batterie e chiudi strada. Si occupò delle difese e fortificazioni in altre città dell'Impero, continuando la carriera militare.
Dal 1868 venne nominato governatore del Litorale austriaco, carica che mantenne fino alla morte.

[7]
Il Forte Olmi rappresentava uno dei punti di forza di tutto il sistema difensivo del porto di Trieste, fu iniziato nel 1858 e concluso nel 1864, a pianta quadrata, con due terrapieni rivolti verso il mare sulla cui sommità vennero posti due mortai rotanti e due più piccoli rivolti verso terra, era cinto da un fossato di circa 7 metri, vi si accedeva attraverso un ponte levatoio di cui oggi rimangono i due piloni laterali. L'armamento consisteva in 16 cannoni, due mortai rotanti, 8 cannoncini da 8 libbre e una guarnigione di circa 500 soldati; rimase inalterato per quasi venti anni, poi venne armato con nuovi cannoni e finita la prima guerra mondiale fu abbandonato. Nel 1928-32 venne usato dalla Milizia per esercitazioni, periodo in cui venne seriamente danneggiato. Nell'ultima guerra mondiale la batteria fu nuovamente attrezzata per la difesa antiaerea, all'interno del cortile venne costruita una casermetta per una piccola guarnigione e gran parte degli spalti furono spianati per realizzare una strada che porta al mare. Oggi sono discretamente conservate le due profonde polveriere, trasformate per usi agricoli, all'ingresso di una delle quali è ancora visibile la data 1864.

[8]
Ronchi-Ronk-Ronco, significa roncola o falcetto, il nome deriva da un toponimo medioevale piuttosto ricorrente in regione, che indica territori interessati in passato da grandi disboscamenti, altrettanto valida la derivazione dal verbo latino "runco - runcāre" estirpare.



Bibliografia:
La Fabbrica Macchine di Sant'Andrea di Alfieri Seri.
San Rocco storia di un cantiere navale di Ernesto Gellner - Paolo Valenti 1990.
Istria storia, arte, cultura di Dario Alberi.
Le chiese di Trieste di Giuseppe Cuscito.
Muggia attraverso le sue chiese di Giordano Pontini 1967.
Il Mare di Trieste e dell'Istria di Aldo Cherini e Paolo Valenti 2004.
"Le piccole architetture di Muggia a soggetto religioso" di Sergio Pupis - Borgolauro N°59-60 anno 2011.
Muggia di Fabio Zubini.
La chiesetta di San Rocco: dal cantiere navale al "Marina Muja" di Italo Vascotto - Borgolauro N° 5 anno 1984.
Trieste industriale - Trieste 1885 di Teobaldo Saffaro.
Fortificazioni Austriache dell'Ottocento di Leone Veronese Jr. Borgolauro N°5 1984.
Il Diavoletto 22 maggio 1861.
Il Diavoletto 5 novembre 1860.
Discover Muggia itinerari muggesani.
Il Building Information Modelling (BIM) e l'interoperabilità in ambito energetico. Caso di studio: Cenacolo di artisti nell'ex scuola elementare di Muggia. - Tesi di laurea di Nicola Tosolini.
Famiglia Cristiana "San Rocco il pellegrino che non aveva paura degli appestati".